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«Più tardi, cara.» Le allungai una banconota. Ero ancora ricco, e quella era una consolazione. O, almeno, pensavo di esserlo. Non lo avrei saputo per certo finché non avessi verificato sul mio computer le malefatte di quell’odioso imbroglione.

Mojo consumò il suo pasto lungo il canale di scolo della via senza lamentarsi. Ecco come sono i cani. Perché non ero nato cane?

Allora, dov’era il mio attico? Dovetti fermarmi a pensare, quindi finii due isolati fuori strada per tornare di nuovo indietro prima di trovarlo, perché quasi mai entravo nell’edificio dall’ingresso che dava sulla via. E ogni minuto che passava mi sentivo sempre più infreddolito, anche se il ciclo era azzurro e il sole ormai brillava. Introdurmi nell’edificio fu molto facile. Fu semplice forzare la porta su Dumaine Street e poi richiuderla con un colpo secco. Ah, ma il cancello, quello sarà la cosa peggiore, pensavo, trascinando le mie pesanti gambe lungo le scale, una rampa dopo l’altra, mentre Mojo, a ogni pianerottolo, aspettava pazientemente che lo raggiungessi.

Arrivai infine alle sbarre del cancello. Vidi l’incantevole luce del sole riversarsi dal giardino pensile nella tromba delle scale e illuminare le grandi begonie verdi, che apparivano un po’ illividite dal freddo.

Ma la serratura, come sarei riuscito a rompere la serratura? Stavo giusto valutando quali arnesi mi sarebbero serviti, come per esempio una piccola carica di esplosivo, quando mi resi conto che la porta del mio appartamento non era chiusa.

«Ah, mio Dio, quel miserabile è stato qui!» sussurrai. «Che sia maledetto. Mojo, ha saccheggiato la mia tana!»

Lo si poteva interpretare anche come un segno di speranza: quel disgraziato era ancora in vita, gli altri non l’avevano fatto fuori. E io avrei potuto ancora catturarlo! Ma come? Sferrai un calcio al cancello e un fortissimo dolore mi saettò lungo il piede. Allora presi a scuotere le sbarre con violenza, ma il cancello rimase saldamente ancorato ai vecchi cardini in ferro, che io stesso avevo predisposto! Un revenant debole come Louis non avrebbe potuto forzarlo, figuriamoci un mortale. Senza dubbio il maledetto non lo aveva nemmeno toccato, ma era entrato come facevo io, dal ciclo.

Smettila. Procurati in fretta gli arnesi necessari e scopri quali danni ha fatto quel demone.

Mi voltai per andarmene, ma proprio in quel momento Mojo si mise in stato d’allerta e cominciò a ringhiare: c’era qualcuno all’interno dell’appartamento. Fu allora che scorsi un’ombra danzare sulla parete d’ingresso.

Non era il Ladro di Corpi. Quello era escluso, grazie a Dio. Allora chi era?

In un istante, la domanda ebbe risposta. Apparve David! Il mio meraviglioso David che, in un abito scuro di tweed e cappotto, mi stava scrutando con il suo tipico sguardo di vigile curiosità dal viottolo del giardino. Non credo, in tutta la mia maledetta e lunga vita, di essere mai stato così felice di vedere un altro mortale.

Subito lo chiamai per nome. Poi in francese dissi che ero io, Lestat. Per favore, apri il cancello!

Non rispose subito. Mostrava una tale dignità, sicurezza ed eleganza — da autentico gentleman —, mentre stava lì a fissarmi, il viso segnato da muta sorpresa. Posò lo sguardo sul cane, poi di nuovo su di me, quindi ancora sul cane.

«David, sono Lestat. Te lo giuro!» gridai. «Questo è il corpo del meccanico! Ti ricordi la fotografia? È stato James, David. Sono intrappolato in questo corpo. Che cosa posso dirti perché tu mi creda? David, fammi entrare.»

Lui rimase immobile. Quindi, d’un tratto, avanzò con passi rapidi e decisi e, quando si fermò davanti al cancello, il suo volto mi apparve del tutto indecifrabile.

Ero quasi sul punto di svenire dalla gioia. Mi aggrappai alle sbarre, come se fossi in prigione, poi mi resi conto che lo stavo guardando negli occhi e che, per la prima volta, ci trovavamo alla stessa altezza.

«David, non sai come sono felice di vederti», dissi, tornando a parlare francese. «Come sei riuscito a entrare? David, sono Lestat. Sono io. Mi credi, vero? Riconosci la mia voce. David, Dio e il Diavolo in quel caffè di Parigi! Chi altri ne è a conoscenza, a parte me?»

Tuttavia non sembrava prestare attenzione alla mia voce: mi fissava negli occhi, come se stesse ascoltando suoni lontani. Poi, d’improvviso, il suo atteggiamento mutò e vidi sul suo volto i chiari segni del riconoscimento.

«Oh, grazie al ciclo», esclamò con un breve sospiro. Ficcò la mano in tasca per prendere un piccolo astuccio, da cui, con un gesto rapido, estrasse un sottile pezzo di metallo che inserì nella serratura. Conoscevo abbastanza il mondo per capire che si trattava di un arnese da scassinatore. Fece girare il cancello sui cardini per farmi entrare, poi mi venne incontro a braccia aperte.

Il nostro fu un lungo, caldo e silenzioso abbraccio. Lottai per non cedere alle lacrime. Solo in poche occasioni in tutto quel tempo avevo davvero toccato quell’essere. E quel momento carico di emozione mi colse di sorpresa. Mi sovvenne il calore degli abbracci con Gretchen. Mi sentii al sicuro e, per un istante, forse, mi sembrò di non essere così solo.

Ma non c’era tempo per godersi quel conforto. Con riluttanza, mi ritrassi e ammirai di nuovo lo splendido aspetto di David. Suscitava in me una tale emozione che quasi credetti di essere tanto giovane quanto il corpo che occupavo. Avevo un tale bisogno di lui!

Tutte le piccole imperfezioni dell’età che prima vedevo in lui grazie ai miei occhi da vampiro erano scomparse. Le profonde rughe sul volto e la luce serena dello sguardo sembravano soltanto una delle espressioni della sua forte personalità; appariva così solido, pieno di risorse e solenne, e con i suoi abiti impeccabili e la catena d’oro dell’orologio che scintillava sul gilet di tweed comunicava una sensazione di vigore e benessere.

«Sai che cos’ha fatto quel bastardo?» esclamai. «Mi ha imbrogliato e abbandonato. E anche gli altri mi hanno piantato in asso. Louis, Marius… Mi hanno voltato le spalle. Sono stato lasciato in questo corpo, amico mio. Vieni, devo vedere se quel mostro ha rubato nel mio appartamento.»

Mi affrettai verso la porta d’ingresso. Udii a malapena le sue poche parole di rassicurazione: lui pensava che quel luogo fosse del tutto tranquillo. Aveva ragione. Il demone non aveva svaligiato l’appartamento! Tutto era come l’avevo lasciato, perfino il mio vecchio cappotto di velluto appeso alla porta aperta dell’armadio. Il taccuino su cui avevo preso appunti prima della mia partenza era al suo posto. E anche il computer, che dovevo accendere immediatamente per scoprire l’entità del furto. Poi c’era il mio agente a Parigi: quel pover’uomo avrebbe potuto essere ancora in pericolo. Dovevo contattarlo subito.

Ma ero distratto dalla luce che inondava il locale, entrando dalle vetrate. Il caldo e morbido splendore del sole s’irradiava sui divani scuri, sulle sedie e sul lussuoso tappeto persiano, e perfino sui pochi ma grandi quadri moderni, tutti di un astrattismo sfrenato, che tanto tempo prima avevo scelto per quelle pareti. A quella vista, mi sentii rabbrividire, meravigliandomi ancora una volta di come la luce elettrica non riuscisse assolutamente a comunicare il particolare senso di benessere che in quel momento mi riempiva.

Mi accorsi anche che nel grande camino dalle piastrelle bianche ardeva un fuoco, senza dubbio acceso da David, e che un profumo di caffè si spandeva dalla cucina, stanza in cui, in tutti quegli anni, ero entrato raramente.

David cominciò a farfugliare scuse: non si era nemmeno registrato al suo albergo, tanto era ansioso di vedermi; era arrivato direttamente dall’aeroporto ed era uscito soltanto per fare un po’ di provviste, in modo da poter passare lì la notte in attesa del mio arrivo o di una mia eventuale telefonata.

«Meraviglioso, sono contentissimo che tu lo abbia fatto», dissi, divertito dalla sua spiccata educazione inglese. Ero così felice di vederlo, ed eccolo lì a scusarsi per essersi comportato come se fosse stato a casa sua! Mi tolsi in fretta il cappotto bagnato e mi sedetti al computer.