«Eccellente. Ho a disposizione parecchio contante.»
«Molto bene. Ora, c’incontreremo con uno dei nostri investigatori a Grenada. È un tipo molto abile, ci ho lavorato insieme per anni. Ha già prenotato la terza cabina all’interno, sul Ponte Cinque. Penserà lui a introdurvi un paio di piccole ma sofisticate armi da fuoco, oltre al baule di cui avremo bisogno più tardi.»
«Quelle armi non serviranno a niente contro un uomo che se ne va in giro nel mio vecchio corpo. Ma, naturalmente, dopo…»
«Proprio così», disse David. «Dopo lo scambio, mi occorrerà una pistola per proteggermi contro questo bel giovane corpo», aggiunse, facendo un gesto verso di me. «Ora, continuiamo. Dopo essersi ufficialmente imbarcato, il mio investigatore se la squaglierà dalla nave, lasciando a noi la cabina e le armi. Anche noi seguiremo la regolare procedura d’imbarco con le nostre nuove identità. A proposito, ho già scelto i nomi. Scusa, ma sono stato costretto a farlo senza consultarti; spero che tu non ti offenda: figuri come un americano di nome Sheridan Blackwood, mentre io sono un chirurgo inglese in pensione di nome Alexander Stoker. È sempre meglio farsi passare per medico in queste brevi missioni. Capisci che intendo dire.»
«Ti sono grato per non avere scelto H.P. Lovecraft», dissi con un enfatico sospiro di sollievo. «Dobbiamo andare, ora?»
«Sì. Ho già chiamato un taxi. Prima di partire, dobbiamo procurarci dei vestiti adatti per i tropici, altrimenti sembreremo ridicoli. Non c’è un momento da perdere. Ora, se vuoi usare le tue giovani e forti braccia per aiutarmi con quella valigia, ti sarò eternamente obbligato.»
«Sono deluso.»
«Per che cosa?» Si fermò, mi fissò e poi, come aveva fatto quella stessa mattina, arrossì un poco. «Lestat, non c’è tempo per quello.»
«David, potrebbe essere la nostra ultima occasione.»
«Va bene», replicò. «Avremo tutto il tempo per discuterne stanotte, all’albergo sulla spiaggia a Grenada. Tutto dipende da quanto sei rapido a imparare. Ora, per favore, da’ una prova di vigore di qualche utilità e aiutami con questa stramaledetta valigia. Sono pur sempre un uomo di settantaquattro anni!»
«Splendido. Ma prima di andarcene, voglio sapere una cosa.»
«Che cosa?»
«Perché mi stai aiutando?»
«Oh, per l’amor del cielo, lo sai il perché.»
«No, non lo so.»
Mi fissò serio per un lungo momento, poi disse: «Ti sono affezionato! Non m’importa in quale corpo tu sia. È la verità. Ma a essere del tutto sincero, questo Ladro di Corpi, come lo chiami tu, mi terrorizza. Sì, mi spaventa fino al midollo. È uno sciocco che si sta scavando la fossa da solo, è vero. Ma stavolta credo che tu abbia ragione. Non è affatto ansioso di essere catturato, se mai lo è stato. Si sta programmando una bella serie di colpi e potrebbe stancarsi presto della Queen Elizabeth 2. Ecco perché dobbiamo agire. Ora prendi questa valigia. Sono quasi morto nel trascinarla lungo le scale».
Obbedii.
Le sue parole, così piene di sentimento, mi avevano rasserenato e intristito nel contempo. Mi lasciai andare a brevi fantasticherie su tutto ciò che avremmo potuto fare nell’altra stanza, nel grande, morbido letto.
E se il Ladro di Corpi aveva già abbandonato la nave? O era stato distrutto proprio quella mattina, dopo che Marius mi aveva guardato con disprezzo?
«Dopo proseguiremo per Rio», disse David, facendo strada verso il cancello. «Arriveremo in tempo per il carnevale: una bella vacanza per tutti e due.»
«Morirò se dovrò vivere così a lungo!» ribattei, precedendolo sulle scale. «È ovvio che ti sei abituato alla tua ‘umanità’: sei un essere umano da un tempo maledettamente lungo!»
«Mi ci sono abituato fin dall’età di due anni», tagliò corto David.
«Non ci credo. Per secoli ho osservato esseri umani di due anni: sono infelici che corrono di qua e di là, cadono e urlano senza posa. Odiano la loro condizione di umani! Sanno già che è una bella fregatura.»
David rise tra sé, ma non mi rispose; non voleva nemmeno guardarmi.
Raggiungemmo la porta d’ingresso e il taxi ci stava già aspettando.
20
Il viaggio in aereo sarebbe stato l’ennesimo incubo se non fossi stato così stremato da addormentarmi. Dal mio ultimo, trasognato riposo tra le braccia di Gretchen erano trascorse più di ventiquattr’ore, perciò mi addormentai così profondamente che, quando David mi svegliò per il cambio d’aereo a Puerto Rico, quasi non mi rendevo conto di dove eravamo o di che cosa stavamo facendo. Per uno strano istante, mi sembrò normale trascinare in giro quell’immenso, pesante corpo in uno stato di ottusa obbedienza ai comandi di David.
Per il cambio d’aereo non uscimmo dal terminal e, quando infine atterrammo nel piccolo aeroporto a Grenada, mi lasciai sorprendere dal delizioso tepore caraibico e dal ciclo splendente nel crepuscolo.
Il mondo intero sembrava trasformato dalle dolci, balsamiche e avvolgenti brezze che ci accolsero. Mi compiacqui di aver saccheggiato il negozio di Canal Street a New Orleans, perché i pesanti abiti di tweed che avevo ancora addosso erano del tutto inadatti. Mentre il taxi, diretto al nostro albergo sulla spiaggia, sobbalzava lungo la strada stretta e irregolare, rimasi incantato di fronte alla rigogliosa foresta che ci circondava: grandi ibiscus rossi che fiorivano oltre i bassi steccati, aggraziate palme da cocco che ombreggiavano le casupole fatiscenti sulla collina. E provai il forte desiderio di vedere tutto quello non con la debole, frustrante visione notturna dei mortali, bensì nella magica luce del sole mattutino.
Era stata quasi una penitenza il fatto che la mia trasformazione fosse avvenuta nel freddo pungente di Georgetown, non v’erano dubbi. Tuttavia, se ripensavo all’adorabile, candida neve e al calore nella casetta di Gretchen, non potevo davvero lamentarmi. Quell’isola dei Caraibi però sembrava essere l’unico vero mondo, il mondo della vita reale. E, come sempre mi accadeva quando mi trovavo in quelle isole, mi stupii che potessero essere così belle, così calde e così povere. La povertà era visibile ovunque: nelle casupole su palafitte, nella gente lungo la strada, nelle vecchie automobili arrugginite; l’assenza totale di qualsiasi segno di abbondanza rendeva tutto molto pittoresco agli occhi dei turisti, anche se era forse proprio questa assenza a rendere dura la vita degli indigeni, uomini che non erano mai riusciti a mettere insieme abbastanza denaro da andarsene, nemmeno per un giorno. Il cielo della sera era di un blu profondo e luminoso, come spesso in quella parte del mondo, e incandescente, come può esserlo sopra Miami, con lo stesso nitido panorama di soffici nuvole bianche su un mare rilucente. Strepitoso. E quella era solo una piccola parte dei Caraibi. D’altronde mi capita forse di andare anche in luoghi con un altro clima?
L’albergo era in realtà una piccola pensione, stuccata di bianco, polverosa e vittima dell’incuria, nascosta tra una miriade di tetti di lamiera arrugginita. Era nota soltanto a pochissimi inglesi, e appariva molto tranquilla, con un’ala di camere vecchio stile che si affacciavano sulle sabbie della Grand Anse Beach. Profondendosi in scuse per i condizionatori rotti e la mancanza di spazio (avremmo dovuto condividere una camera doppia: stavo per scoppiare a ridere quando David alzò gli occhi al cielo come a dire che la sua persecuzione non aveva fine! ), il proprietario ci fece notare che il cigolante ventilatore sul soffitto funzionava e muoveva aria a sufficienza. Alle finestre, vecchie persiane; nella camera, mobili in vimini bianco e pavimento di vecchio cotto.