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Trovavo tutto incantevole, soprattutto per il tepore dell’aria intorno a me e per quella parte di giungla che si era infiltrata nell’edificio, con le immancabili foglie di banano e la vite americana che spuntava qua e là. Ah, quella vite! Una buona regola potrebbe essere quella di non vivere mai in una parte del mondo dove non cresce quella pianta.

Per prima cosa, ci cambiammo d’abito. Mi tolsi il tweed e indossai i pantaloni e la camicia di cotone leggero che avevo comprato a New Orleans prima di partire, e un paio di scarpe da tennis bianche. Rinunciando ad aggredire David, che si stava cambiando dandomi le spalle, uscii e mi avviai verso la spiaggia, passando sotto le curve aggraziate delle palme da cocco.

Era una delle notti più tranquille e serene che ricordassi. Ritrovai tutto il mio amore per i Caraibi, accompagnato da dolci e dolorosi ricordi. Tuttavia avrei voluto vedere la notte coi miei occhi di un tempo, e penetrare con lo sguardo l’oscurità sempre più fitta e le ombre che velavano le colline circostanti. Avrei voluto ricorrere al mio udito soprannaturale per cogliere i delicati suoni della giungla, vagare con vampiresca velocità sulle montagne dell’interno per scoprire le piccole valli e le cascate segrete come solo il vampiro Lestat avrebbe potuto fare.

Provai una spaventosa tristezza per tutte le scoperte che andavo facendo. E forse per la prima volta un pensiero mi colpì con tutta la sua forza: i miei sogni sulla vita mortale erano stati una menzogna. La vita era magica, tutto il creato era un miracolo, il mondo era fondamentalmente buono: ma avevo dato a tal punto per scontato il mio potere tenebroso da non rendermi conto di quale privilegio mi avesse offerto. Non avevo saputo attribuire al mio dono il suo giusto valore. E rivolevo il mio dono.

Sì, avevo fallito! Mi sarebbe dovuta bastare la vita mortale!

Rivolsi lo sguardo verso le stelle senza cuore, guardiane maligne, e mi appellai agli oscuri dei inesistenti, pregandoli di capire.

Pensai a Gretchen: chissà se aveva già raggiunto la giungla e tutti i malati che attendevano la consolazione del suo aiuto. Avrei voluto sapere dov’era. Forse si trovava già al lavoro, con le fiale dei medicinali in un ambulatorio nella giungla, o forse stava avanzando verso i villaggi vicini con lo zaino colmo di miracoli. Pensai alla sua quieta felicità nel descrivere la missione. Mi tornò in mente il calore, la dolcezza, dei suoi abbracci, e come fosse confortevole quella stanzetta. Rividi cadere la neve oltre i vetri delle finestre, rividi i suoi grandi occhi chiari fissi su di me e riudii il ritmo cadenzato delle sue parole.

Poi l’azzurro intenso del cielo crepuscolare fu di nuovo sopra di me e mi sentii la brezza sulla pelle come fosse acqua, e pensai a David. David era con me.

Stavo piangendo quando David mi toccò il braccio.

Per un momento non riuscii a distinguere i tratti del suo volto. La spiaggia era scura e il rombo delle onde così forte che in me non sembrava funzionare più nessun senso. Poi capii che la persona ferma lì a guardarmi altri non era che David: con gentilezza mi stava chiedendo di tornare in camera. Perfino indossando una camicia bianca di cotone, pantaloni délavé e sandali riusciva a sembrare elegante.

«Jake, il nostro uomo di Città del Messico, è qui», mi disse. «Credo che dovresti venire dentro.»

Entrammo nella misera camera, dove il ventilatore sul soffitto girava rumorosamente, muovendo l’aria fresca che entrava dalle persiane. Dalle palme giungeva un vago fruscio, un suono gradevole, che aumentava e diminuiva al ritmo della brezza.

Su uno dei letti, stretti e coi materassi incurvati, stava seduto Jake: un tipo allampanato con indosso un paio di shorts kaki e una polo bianca, e che tirava avide boccate da un sottile sigaro bruno dall’aroma intenso. La sua pelle era bruciata dal sole e i capelli, spettinati e stopposi, erano di un biondo ormai quasi grigio. Sembrava perfettamente rilassato ma, sotto quella facciata, era attentissimo e sospettoso. La sua bocca era sottile, come una linea.

Al momento di stringerci la mano, non cercò di nascondere che mi stava squadrando da capo a piedi. Aveva occhi attenti, furtivi, simili a quelli di David, benché più piccoli. Dio solo sa che cosa vide.

«Be’, le pistole non saranno un problema», esordì con marcato accento australiano. «In un porto come questo non ci sono metal detector. Salirò a bordo intorno alle dieci della mattina, sistemerò il baule e le pistole nella vostra cabina sul Ponte Cinque, e poi c’incontreremo al Café Centaur a St. George. Spero davvero che tu sappia quello che fai, David, portando armi da fuoco a bordo della Queen Elizabeth 2.»

«Certo che so quello che faccio», ribatté David con garbo e sorridendo. «Che cosa sai dirci del nostro uomo?»

«Ah, sì, Jason Hamilton. Un metro e ottantatré, abbronzatura intensa, capelli biondi portati piuttosto lunghi, occhi azzurri e penetranti. Un tipo misterioso. Molto inglese, estremamente educato. Non si contano le voci sulla sua vera identità. Offre mance sbalorditive, dorme di giorno e sembra non gl’interessi scendere dalla nave quand’è attraccata in porto. Ogni mattina, all’alba, prima di sparire per il resto della giornata, consegna allo steward dei pacchetti da spedire. Non sono riuscito a scoprire la casella postale, ma è solo questione di tempo. Non si è ancora fatto vedere nel Queens Grill nemmeno per un pasto. Corre voce che sia molto malato, ma di cosa nessuno lo sa. Inoltre è il ritratto della salute, il che aumenta il mistero. Lo dicono tutti. Un tipo ben piazzato ed elegante con un guardaroba impeccabile, a quanto pare. Gioca forte alla roulette e balla per ore con le signore. Sembra che gli piacciano quelle molto anziane. Basterebbe questo particolare a destare sospetti, se non fosse che lui è maledettamente ricco. Passa ore e ore a girovagare per la nave.» «Eccellente. È proprio quello che volevo sapere», disse David. «Hai tu i nostri biglietti?»

L’uomo indicò una cartella di cuoio nero sulla toilette di vimini. David ne controllò il contenuto e poi gli rivolse un cenno d’assenso. «Qualche decesso sulla Queen Elizabeth 2 fino a ora?»

«Ah, questa sì che è una faccenda curiosa. Da quando hanno lasciato New York, ci sono stati sei decessi, un numero decisamente fuori del normale. Tutte donne molto anziane, tutte apparentemente morte per un attacco di cuore. È questo il genere di cose che vuoi sapere?»

«Esattamente questo», disse David.

Ah, ecco che cos’era «la bevutina», pensai.

«Adesso dovreste dare un’occhiata alle armi per sapere come usarle in caso di necessità», disse Jake. Raccolse dal pavimento una piccola borsa da viaggio consunta, proprio il genere di sacco di iuta logoro in cui si nascondono armi costose, supposi. Difatti ne uscirono proprio armi costose: una Smith Wesson e un’automatica nera non più grande del palmo della mia mano.

«Ah, una vecchia conoscenza», esclamò David, impugnando la grossa pistola argentea e puntandola verso il pavimento. «Nessun problema.» Estrasse il caricatore, poi lo reinserì. «Mi auguro però di non doverla usare: fa un rumore d’inferno.» Poi me la passò. «Lestat, abituati a maneggiarla. Non c’è tempo per fare pratica. Ho chiesto un grilletto sensibile.»

«E lo hai avuto», s’intromise Jake, guardandomi con freddezza. «Quindi, per favore, fa’ attenzione.»

«Che strumento barbarico», commentai. Era molto pesante. Un concentrato di distruzione. Feci girare il tamburo: sei pallottole. Emanava uno strano odore.

«Entrambe le pistole sono calibro 38», spiegò l’uomo, con una lieve nota di disappunto. «Sono letali.» Mi mostrò una scatoletta di cartone. «Avrete munizioni in abbondanza per qualsiasi cosa intendiate fare sulla nave.»

«Non preoccuparti, Jake», disse David con decisione. «Probabilmente andrà tutto liscio. Ti ringrazio per la tua solita efficienza. Adesso goditi una serata sull’isola. Ci vediamo al Café Centaur prima di mezzogiorno.»