«Perché non si può morire in quel modo, David? Voglio dire, perché non ci s’innalza fino al ciclo e si lascia la terra?»
«Hai visto qualche porta aperta, Lestat?» chiese lui.
«No», ammisi con grande tristezza. «Ho visto questo mondo. Era così nitido, così bello… Ma era questo mondo.»
«Devi imparare come sferrare l’attacco.»
«Ma io credevo che lo avresti fatto tu, David. Tu dovevi sorprenderlo e buttarlo fuori del suo corpo e…»
«Sì, e supponi che lui mi scopra prima che io possa farlo, e mi tramuti in una bella torcia. Allora che si fa? No, devi imparare il trucco anche tu.»
Quello era molto più difficile. E richiedeva un atteggiamento opposto a quello stato di passività e rilassamento che avevamo utilizzato e sviluppato. Dovevo concentrare tutta la mia energia su David con lo scopo dichiarato di scuoterlo fuori del suo corpo (un fenomeno che non potevo sperare di osservare nel senso reale del termine), per poi entrarci a mia volta. La concentrazione richiesta era terribile. E la scelta del momento era critica. Gli sforzi ripetuti producevano un nervosismo intenso e defatigante, simile a quello provato da chi, destrorso, voglia scrivere bene con la mano sinistra.
Più di una volta fui prossimo alle lacrime per la rabbia e la frustrazione. Ma David era irremovibile sul fatto che dovessimo continuare e che la riuscita fosse possibile. No, un buon bicchiere di scotch non sarebbe stato utile. No, non avremmo potuto mangiare prima. No, non avremmo potuto fare una pausa per una passeggiata sulla spiaggia o per una nuotata serale.
La prima volta che vi riuscii, rimasi atterrito. Stavo andando verso David sempre più velocemente, e percepii l’impatto nella stessa forma mentale in cui avevo provato la libertà del volo. Poi fui dentro di lui e, per una frazione di secondo, vidi me stesso, con la bocca semiaperta e lo sguardo vitreo, attraverso le lenti appannate degli occhi di David.
Provai allora un raccapricciante senso di disorientamento e avvertii un colpo invisibile, come se qualcuno avesse premuto una mano gigantesca sul mio petto. Mi resi conto che lui era tornato, spingendomi fuori. Galleggiavo nell’aria, poi mi ritrovai di nuovo nel mio corpo madido di sudore, ridendo istericamente per la folle eccitazione, oltre che per la pura e semplice stanchezza.
«È tutto ciò che ci occorreva», disse. «Ora so che possiamo farcela. Dai, ancora una volta! Lo ripeteremo venti volte se necessario, fino a quando non sapremo che possiamo riuscirci senza errori.»
Durante il quinto assalto rimasi nel suo corpo per trenta secondi pieni, ipnotizzato dalle sensazioni diverse che ciò comportava: le membra più leggere, la vista più debole e il curioso suono della mia voce che usciva dalla sua gola. Guardai in basso e vidi le sue mani: sottili, percorse di vasi sanguigni in rilievo e con un velo di peli scuri sul dorso. Ed erano le mie mani! Com’era difficile controllarle. Una di esse aveva un intenso tremore che non avevo mai notato prima.
Poi giunse nuovamente il sobbalzo, e mi ritrovai a volare verso l’alto. E poi ecco la caduta, ancora una volta nel vecchio corpo di ventisei anni.
L’avremo fatto almeno dodici volte prima che quel negriero di un sacerdote del Candomblé dicesse che era arrivato il momento per lui di opporre una vera resistenza ai miei assalti.
«Adesso devi venirmi addosso con molta più determinazione. Il tuo obiettivo è prendere possesso del corpo! E ti aspetti uno scontro.»
Combattemmo per un’ora. Infine, quando fui in grado di sbalzarlo fuori e tenercelo per dieci secondi filati, David affermò che poteva bastare.
«Ti ha detto la verità a proposito delle tue cellule. Ti riconoscono. Ti accolgono e cercano di trattenerti. Qualsiasi essere umano adulto sa usare il proprio corpo molto meglio dell’intruso. È ovvio che tu sai come utilizzare quei doni soprannaturali in modi che lui non può nemmeno sognare. Credo che possiamo farcela. Anzi ora ne sono certo.»
«Ma dimmi una cosa…» mormorai. «Prima che smettiamo, non vuoi sbalzarmi fuori di questo corpo ed entrarci? Voglio dire, solo per vedere che effetto fa?»
«No», rispose sottovoce. «Non voglio.»
«Ma non sei curioso?» gli domandai. «Non vuoi sapere…»
Mi accorsi che si stava spazientendo. «La verità è che non abbiamo tempo per quella esperienza. E forse non lo voglio sapere. Ricordo abbastanza bene la mia giovinezza. Anzi troppo bene. Non siamo qui per giocare. Ora sei in grado di attaccare. È questo che importa.» Guardò l’orologio. «Sono quasi le tre. Mangeremo qualcosa e andremo a dormire. Ci aspetta una giornata pesante, dobbiamo esplorare la nave e verificare i nostri piani. Dobbiamo essere riposati e in pieno possesso delle nostre facoltà. Vieni, vediamo cosa riusciamo a trovare per nutrirci.»
Uscimmo e percorremmo il vialetto fino alla piccola cucina: un locale strano, umido e ingombro. Il cortese titolare aveva lasciato due piatti per noi nel frigorifero arrugginito e rumoroso, insieme con una bottiglia di vino bianco. Ci sedemmo a tavola e divorammo ogni boccone di riso, patate dolci e carne speziata, indifferenti al fatto che fosse tutto freddissimo.
«Puoi leggere i miei pensieri?» chiesi, dopo avere finito il secondo bicchiere di vino.
«No. Hai imparato il trucco.»
«E come faccio, nel sonno? La Queen Elizabeth 2 non può essere lontana più di cento miglia, adesso: deve attraccare fra due ore.»
«Allo stesso modo in cui lo fai da sveglio. Ti chiudi. Ti blocchi. Perché, vedi, nessuno è mai completamente addormentato. Nemmeno chi è in coma è completamente addormentato. La volontà è sempre attiva. È una questione di volontà.»
Lo guardai. Era di certo stanco, ma non appariva smunto o comunque debilitato. I suoi spessi capelli bruni certo contribuivano a dare un’impressione di vigore, e i grandi occhi scuri avevano la stessa luce fiera di sempre.
Finii in fretta, misi i piatti nel lavello e uscii sulla spiaggia, senza preoccuparmi di dire cosa intendevo fare. Sapevo che lui mi avrebbe invitato a riposare e io non volevo essere privato di quell’ ultima notte da essere umano sotto le stelle.
Avvicinandomi al limitare dell’acqua, mi tolsi gli abiti di cotone e mi addentrai tra le onde. Erano fredde ma invitanti, e allora aprii le braccia, cominciando a nuotare. Non fu semplice, certo. Ma non fu nemmeno difficile, una volta che mi rassegnai al fatto che gli umani nuotavano proprio in quel modo e cioè avanzando bracciata dopo bracciata, vincendo la resistenza dell’acqua e facendosi sostenere il corpo ingombrante, cosa cui l’acqua si prestava molto volentieri.
Nuotai per un po’, quindi mi girai sul dorso e guardai il ciclo: era ancora pieno di lanose nuvole bianche. Sperimentai un momento di pace, a dispetto del freddo sulla mia pelle scoperta e della strana sensazione di vulnerabilità che provavo nel rimanere a galla su quel mare infido e scuro. Se pensavo di tornare nel mio vecchio corpo, mi sentivo felice, e, ancora una volta, seppi di avere fallito nella mia avventura umana.
Non ero stato l’eroe dei miei sogni. Avevo trovato troppo dura la vita mortale.
Alla fine mi diressi dove l’acqua era bassa e tornai sulla spiaggia. Raccolsi i miei abiti, li scossi per liberarli dalla sabbia, me li misi su una spalla e tornai in camera.
C’era una sola lampada accesa, sulla toilette. David era seduto sul suo letto, il più vicino alla porta, indossava soltanto la lunga giacca bianca del pigiama e stava fumando uno dei suoi piccoli sigari. Mi piaceva il suo aroma, forte e dolce.
Esibiva la sua solita aria nobile: con le braccia conserte e gli occhi pieni di curiosità, mi osservava mentre prendevo un asciugamano dal bagno e mi strofinavo i capelli e la pelle.
«Ho appena chiamato Londra», disse.
«Che notizie ci sono?» Mi passai l’asciugamano sulla faccia, poi lo appoggiai sullo schienale della poltrona. Era così piacevole la sensazione dell’aria sulla mia pelle, ormai asciutta.