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Il bar oscuro era fresco all’interno e aveva solo pochi tavoli dipinti in colori brillanti. David ordinò una birra gelata e, dopo pochi minuti, Jake entrò con passo lento. Era vestito con gli stessi shorts kaki e la stessa polo bianca; scelse con attenzione una sedia dalla quale potesse sorvegliare la porta aperta. Il mondo fuori sembrava fatto d’acqua luccicante. La birra sapeva di malto ed era abbastanza buona.

«Be’, è fatta», disse Jake a bassa voce, col volto quasi rigido e assente come se non si trovasse affatto lì con noi, ma fosse profondamente immerso nei suoi pensieri. Ingollò una sorsata dalla bottiglia di birra, poi fece scivolare sul tavolo verso David un paio di chiavi. «Trasporta più di mille passeggeri. Nessuno si accorgerà che il signor Eric Sampson non è tornato a bordo. La cabina è piccola, nella parte interna come l’avevate chiesta, proprio alla fine del corridoio, a metà della nave, sul Ponte Cinque, come sapete.»

«Eccellente. E ti sei procurato due copie delle chiavi. Molto bene.»

«II baule è aperto e metà della roba è sparsa sul letto. Le vostre pistole si trovano all’interno dei due libri dentro il baule. Ho ricavato le cavità io stesso. I chiavistelli sono là. Dovreste poter applicare alla porta quello grosso con relativa facilità, ma non so se al personale piacerà molto. Di nuovo, vi auguro buona fortuna. Oh, avete sentito della rapina avvenuta stamattina presto? Sembra che abbiamo un vampiro a Grenada. Forse dovresti pensare se rimanere qui, David. Sembra proprio il tuo genere di cose.»

«Stamattina?»

«Alle tre della mattina. Proprio là sulla scogliera. Nella grande casa di una ricca austriaca. Tutti assassinati. Un gran macello. Tutta l’isola ne parla. Be’, è ora che vada.»

David parlò di nuovo soltanto dopo che Jake ci ebbe lasciati.

«Che brutta faccenda, Lestat. Noi eravamo sulla spiaggia alle tre. Se ha percepito anche solo un barlume della nostra presenza, potrebbe non trovarsi sulla nave. O potrebbe essere pronto ad affrontarci al tramonto.»

«Stamattina lui era troppo occupato, David. Inoltre, se avesse percepito la nostra presenza, avrebbe trasformato la nostra stanza in un falò. A meno che non sappia come farlo, ma questo non possiamo saperlo. Sono stanco di aspettare. Guarda, comincia a piovere.»

Raccogliemmo i bagagli, compresa la mostruosa valigia di pelle che David si era portato da New Orleans, e ci affrettammo ad andare a mangiare. Si era messo a piovere, e una folla di mortali fragili e anziani sbucò da ogni parte, dai taxi, dalle baracche lì intorno e dai piccoli negozi, e noi impiegammo diversi minuti per salire a bordo dell’instabile barchetta e sederci sulla panca di plastica bagnata.

Non appena la prora fu rivolta verso la Queen Elizabeth 2 provai un’eccitazione che mi fece girare la testa: era divertente attraversare il mare caldo su un’imbarcazione così minuscola. Adoravo la sensazione del movimento man mano che prendevamo velocità.

David era abbastanza teso. Aprì il passaporto, lesse per l’ennesima volta le informazioni che conteneva, poi lo ripose. Avevamo studiato le nostre identità quella mattina dopo colazione, ma speravamo di non avere bisogno di rammentare i vari dettagli.

Per quel che valeva, il dottor Stoker era un pensionato in vacanza ai Caraibi, molto preoccupato per il suo caro amico Jason Hamilton, sistemato nella Queen Victoria Suite. Ci teneva a vedere il signor Hamilton, e lo avrebbe detto ai camerieri di bordo, raccomandandosi tuttavia di non rivelare la sua apprensione al signor Hamilton.

Io ero soltanto un amico che lui aveva incontrato alla pensione la notte precedente e col quale aveva fatto conoscenza per via del fatto che entrambi viaggiavamo sulla Queen Elizabeth 2. Non doveva esserci nessun altro collegamento, perché ci sarebbe stato James nel mio corpo, una volta effettuato lo scambio, e, se fosse stato impossibile controllarlo, David doveva essere libero di trattarlo male.

C’erano altre cose, nel caso in cui fossimo stati interrogati a proposito di qualunque genere di tafferuglio si potesse verificare. Ma eravamo convinti che il nostro piano non avrebbe portato a niente di simile.

Infine la lancia raggiunse la nave. Era enorme in modo davvero assurdo, quell’imbarcazione, vista da vicino! Mozzava il respiro.

Consegnammo i nostri biglietti. I camerieri avrebbero portato i nostri bagagli. Ricevemmo alcune vaghe indicazioni su come raggiungere il ponte in cui si trovava la nostra cabina, e ci ritrovammo a vagare lungo un corridoio senza fine dal soffitto molto basso e con un’infilata di porte su entrambi i lati. Nel giro di pochi minuti capimmo di esserci persi.

Continuammo a camminare fino a raggiungere un vasto spazio aperto dal pavimento ribassato. C’era addirittura un pianoforte a coda bianco, pronto per un concerto.

David m’indicò un grande schema colorato della nave appeso a una parete e disse: «Adesso ho capito dove siamo. Seguimi».

«Com’è assurdo tutto ciò», borbottai, fissando i tappeti dai colori brillanti, le cromature e la plastica che scorgevo ovunque guardassi. «Com’è tutto brutto e artificiale.»

«Zitto… Gli inglesi sono molto orgogliosi di questa nave e, se continui così, finirai con l’offendere qualcuno. Non si può più usare il legno: è per via delle norme antincendio.» Si fermò davanti a un ascensore e spinse il bottone. «Questo ci porterà al Ponte Barche. Quel tipo non ha detto che là avremmo trovato il Queens Grill Lounge?»

«Non ne ho idea», dissi. Entrai nell’ascensore come uno zombie. «Ma è una cosa inconcepibile!»

«Lestat, è dall’inizio del secolo che esistono navi da crociera grandi come questa. Hai vissuto nel passato.»

II Ponte Barche rivelò un’intera serie di meraviglie. La nave ospitava un grande teatro e anche un’intera balconata di piccoli negozi eleganti. Sotto la balconata, si trovava una pista da ballo, con un piccolo palco per i musicisti e una distesa di tavolini da cocktail e di basse e comode poltrone di pelle. I negozi erano chiusi perché la nave era in porto, ma era facile intravederne gli articoli attraverso le saracinesche a maglie larghe che li chiudevano. Abiti costosi, gioielli raffinati, porcellane, smoking neri e camicie inamidate, vari oggetti e articoli da regalo erano esposti in nicchie poco profonde.

Ovunque si aggiravano passeggeri, in prevalenza uomini e donne piuttosto anziani sommariamente vestiti da spiaggia. Molti si erano radunati nel tranquillo salone sottostante illuminato dal sole.

«Su, andiamo verso le camere», disse David tirandomi con sé. Sembrava che le suite verso cui eravamo diretti si trovassero, in un certo senso, separate dal corpo principale della nave. Dovevamo infilarci nel Queens Grill Lounge, un locale lungo e stretto, piacevolmente arredato, riservato ai passeggeri del ponte superiore, per poi trovare l’ascensore seminascosto che ci avrebbe portato alle nostre camere. Il bar aveva finestre molto grandi che permettevano di scorgere la meravigliosa acqua azzurra e il ciclo limpido.

Quello sarebbe dovuto essere il territorio dei passeggeri di prima classe, durante la traversata transatlantica. Ma lì nei Caraibi non era così, benché il salone e il ristorante fossero una zona isolata in quel piccolo mondo galleggiante.

Alla fine, arrivammo sul ponte più alto della nave, in un corridoio arredato più riccamente di quelli dei piani inferiori. Le lampade di plastica e le belle finiture delle porte avevano un’aria art déco. L’illuminazione era più generosa e più allegra. Un cameriere dall’aria cordiale, un signore di circa sessant’anni, comparve da dietro una tenda che nascondeva una piccola cambusa e ci condusse alle nostre suite all’estremità opposta del corridoio.

«Dov’è la Queen Victoria Suite?» chiese David.

Con un accento inglese molto simile al suo, il cameriere rispose subito che si trovava giusto due cabine più in là. Ne indicò la porta.