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— Io non stavo…

— È entrata in mio possesso in modo legale. E quale sia stato questo modo, tu non l’hai ancora immaginato. Ti sei posto un enigma, hai dato quattro risposte, e hai sbagliato quattro volte. Se io annaspassi fra gli enigmi a questo modo, oggi non sarei qui a parlare con te. Adesso devo andare a ricevere cortesemente i mercanti, a Tol. Quando avrai deciso che questa mattina puoi permetterti di lavorare, degnati di raggiungermi.

Si avviò all’uscita. Ma era appena giunto ai gradini che dalla veranda scendevano in cortile quando Eliard, col volto arrossato dall’ira, abbandonò gli ospiti allibiti, attraversò il locale con una velocità sorprendente per la sua mole, afferrò Morgon alla vita e lo trascinò in un gran tuffo, facendolo finire sotto di sé, con la faccia nella polvere.

Le galline e le oche si dispersero, starnazzando con indignazione. I fattori, il ragazzino venuto da Tol, la cuoca e la ragazza che lavava i piatti in cucina, corsero sulla veranda mandando esclamazioni sbalordite.

Morgon, senza fiato per il colpo che gli aveva fatto uscire l’aria dai polmoni, giacque immobile mentre sopra di lui Eliard ringhiava fra i denti: — Non te la senti di rispondere a una semplice domanda? Cosa significa, quando dici che oggi non saresti qui a parlare con me? Morgon, cos’hai fatto per quella corona? Dove l’hai avuta? Che hai combinato? Io giuro che ti…

Morgon sollevò la testa, stordito. — L’ho presa in una torre. — Con uno scatto ruotò lateralmente, colse Eliard sbilanciato e lo scaraventò in uno dei cespugli di rose di Tristan.

La zuffa fu breve ma non priva di momenti spettacolari. I fattori di Morgon, che fino all’anno addietro avevano vissuto sotto il placido ed efficiente governo di Athol, osservarono un po’ stupefatti e un po’ sogghignanti il Principe di Hed ruzzolare attraverso una vasta pozza di fango, sollevarsi ancora in piedi, incassare la testa fra le spalle come un toro e caricare muggendo contro il fratello. Eliard si liberò dalla sua presa e replicò con un gancio destro che, colpendo la mascella dell’avversario, risuonò secco quanto un lontano colpo d’accetta in un tronco. Morgon andò giù come un sacco di grano.

Subito Eliard si lasciò cadere in ginocchio accanto al corpo immoto del fratello e ansimò: — Mi dispiace. Mi dispiace. Morgon, ti ho fatto male?

Muta e furiosa Tristan avanzò nel cortile, raccolse un secchio colmo di latte e lo rovesciò in testa ai due.

Sotto la veranda si levarono commenti confusi, gemiti di compatimento, e qualcuno zufolò fra i denti. Mastro Cannon sedette su uno degli scalini e si nascose il volto fra le ginocchia. Eliard abbassò gli occhi sullo sfacelo della sua tunica fangosa. Distrattamente cercò di ripulirsela con le mani, peggiorandone ancora l’aspetto.

— Guarda come mi hai ridotto — si lamentò. — Morgon?

— Hai distrutto la mia pianta di rose — lo rimproverò Tristan. — E guarda cos’hai fatto a Morgon, di fronte a tutti quanti. — Sedette accanto al corpo di Morgon sul terreno bagnato, gli fece girare il volto e glielo asciugò con un lembo del grembiule. Morgon sbatté le palpebre storditamente, le ciglia bagnate di latte. Eliard si spostò a sedere su una pietra.

— Morgon, mi dispiace. Però non credere di poter evitare l’argomento in questo modo.

Morgon sollevò il braccio, ebbe una smorfia e si massaggiò cautamente la mascella. — Che… quale argomento? — mugolò, cupo.

— Non importa — stabilì Tristan. — Non è una cosa per cui due fratelli debbano litigare.

— Cos’è questa porcheria che ho addosso?

— Latte.

— Mi dispiace — ripeté Eliard. Afferrò il fratello per le spalle e fece per tirarlo su, ma lui scosse il capo.

— Lasciami disteso dove sono per un momento. Che ti è preso di saltarmi addosso a quel modo? Prima mi accusi di omicidio, poi cerchi di farmi saltare via la mandibola, e per finire mi inzuppi di latte puzzolente. È disgustoso. Cosa c’era in questo latte, stereo di gallina e fango? Maledetta porcheria…

— Sono stata io — confessò Tristan. — Era il latte dei maiali. Ma tu hai gettato Eliard sul mio cespuglio di rose. — Asciugò delicatamente il labbro inferiore di Morgon, insanguinato. — Davanti a tutti gli ospiti. Sono così umiliata.

— E la colpa di questo è mia? — chiese Morgon. Eliard si massaggiò una costola dolorante e fece udire un grugnito.

— Sei stato tu a farmi perdere la ragione, parlandomi a quel modo. Tu sei scivoloso come un’anguilla. Una cosa però io l’ho capita: questa primavera ti sei procurato una corona, perché prima non l’avevi. E hai detto che se rispondessi agli enigmi male quanto me, oggi non saresti qui. Voglio sapere perché. Avanti, perché?

Morgon restò in silenzio. Dopo qualche istante si alzò a mezzo, sollevò le ginocchia e vi appoggiò il mento. — Tristan, perché hai scelto proprio oggi per tirar fuori questo argomento?

— Avanti prenditela con me adesso — si lamentò passivamente lei. — Io sono qui che vado in giro con le pezze ai gomiti, e tu nascondi perle e gioielli sotto il tuo letto.

— Non avresti le pezze ai gomiti, se avessi detto a Narly Stone di farti qualche vestito che ti vada bene. Stai crescendo, ecco tutto…

— Vuoi piantarla di cambiar discorso!

Morgon risollevò il capo. — Piantala tu di abbaiare. — Spostò lo sguardo da Eliard al gruppetto di ospiti immobili che li fissavano in assoluto silenzio, e sospirò. Si passò le mani sulla faccia e poi fra i capelli. — Ho vinto quella corona in una gara di enigmi che ho fatto ad An, con uno spettro.

— Oh! — La voce di Eliard suonò stridula. — Un cosa?

— Il fantasma di Peven, Nobile di Aum. Quella che sta sotto al mio letto è la corona dei Re di Aum. Essi furono assoggettati da Oen di An seicento anni fa. Peven ha la rispettabile età di cinquecento anni. Fu imprigionato vivo nella sua torre da Oen e dai Re di An.

— Che aspetto ha? — chiese Tristan. La sua voce era un sussurro. Morgon scosse appena le spalle, evitando i loro occhi.

— È un vecchio. Un vecchio nobile, con occhi che sembrano contenere le risposte a mille enigmi. Un tempo scommise che nessuno avrebbe mai potuto vincere una gara di enigmi con lui. Così mi imbarcai su una delle navi dei mercanti, e andai a sfidarlo. Lui affermò che dei grandi nobili di Aum, An e Hel — le tre attuali regioni di An — e perfino dei Maestri degli Enigmi venuti da Caithnard lo avevano sfidato a una gara, ma non gli era mai capitato un contadino di Hed. Io gli risposi che avevo letto molto. Così facemmo questa gara. E la vinsi io. Quindi mi portai la corona a casa e la nascosi sotto il letto, in attesa di decidere cos’avrei potuto farmene. Ora dico, era il caso di sbraitare tanto?

— Costui ha perso, e ti ha dato la corona — riassunse Eliard a occhi socchiusi. — Cosa avresti dovuto dargli, se fossi stato tu il perdente?

Morgon si sfiorò con un dito il labbro ferito. I suoi occhi scivolarono sui campi oltre le spalle di Eliard. — Be’… mormorò infine. — Vedi, dovevo vincere per forza.

Eliard si alzò in piedi di scatto. Volse la schiena a Morgon e fece due passi, a pugni stretti, poi tornò indietro con un secco dietrofront e si mise di nuovo a sedere.

— Tu, dannato pazzo!

— Non ricominciate a picchiarvi — li implorò Tristan.

— Non sono affatto un pazzo — stabilì Morgon. — Ho vinto la gara, o no? — Il suo volto era rigido. Guardò dritto negli occhi di Eliard, come da una grande distanza. — Kern di Hed, il Principe che aveva la corona con la gemma a forma di cavolo…

— Non cercar di cambiare…

— Non lo sto facendo. Kern di Hed, l’unico Principe di Hed oltre il sottoscritto a possedere una corona, un giorno ebbe la dubbia fortuna di essere inseguito da una Cosa senza nome. Forse era soltanto l’effetto del vino di Herun. Questa Cosa chiamava incessantemente il suo nome. Lui fuggì via, corse nella sua casa che aveva sette stanze e sette porte l’una dietro l’altra, e chiuse tutte le porte alle sue spalle finché giunse nella camera più interna, dove fu costretto a fermarsi. Ma subito egli udì il rumore delle porte che si spalancavano, una alla volta, ed ogni volta sentì gridare il suo nome. Sei furono le porte che udì aprirsi, e sei volte il suo nome risuonò, sempre più vicino. E proprio fuori dalla settima e ultima il suo nome fu chiamato ancora. Ma la Cosa non toccò la porta. Egli attese disperato che entrasse, però essa non lo fece. Infine decise di uscire, e aprì la porta lui stesso. La Cosa se n’era andata. Ed egli fu lasciato lì a chiedersi, per tutto il tempo che gli rimase da vivere, cos’era che lo aveva chiamato.