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— Sì…

CAPITOLO SECONDO

Il mattino successivo lo trovò seduto su un barilotto di birra, sul ponte di una delle navi mercanti, con gli occhi fissi sulla scia le cui onde s’allargavano a misurare Hed come le aste di un compasso. Accanto al barilotto giaceva una sacca di indumenti che Tristan aveva riempito innanzi a lui e senza cessare un attimo di discutere, cosicché nessuno dei due avrebbe più potuto dire cos’altro conteneva, insieme alla corona. Era bislaccamente rigonfia, quasi che nel parlare ella vi avesse ficcato dentro tutto ciò che s’era trovata fra le mani. Eliard non aveva quasi aperto bocca. Dopo un poco era uscito dalla camera del fratello. Morgon lo aveva ritrovato nella fucina presso la stalla, che martellava su un ferro di cavallo arroventato.

Rivangando i suoi pensieri del giorno prima, aveva detto: — Ieri stavo quasi per acquistarti uno stallone sauro di An, con la corona.

Ed Eliard aveva scaraventato nell’acqua le pinze surriscaldate e il ferro, e agguantando Morgon per le spalle lo aveva inchiodato contro la parete, con un grido: — Non credere di potermi comprare con un cavallo! — Il che risultò privo di senso per Morgon e, dopo un momento, anche per Eliard. Gli aveva tolto le mani di dosso, chinando il capo con una smorfia triste e perplessa.

— Scusami. È solo che vederti partire mi spaventa, adesso. Credi che qui le piacerà?

— È quel che vorrei sapere.

Tristan, seguendolo nel salone col mantello sulle braccia, mentre lui stava per uscire, s’era fermata a fissarlo con un volto che gli era apparso stranamente nuovo e vulnerabile. La fanciulla aveva lasciato vagare lo sguardo sui muri disadorni, rustici e spogli, spingendo una sedia al suo posto contro un tavolo. — Morgon, spero che lei sia capace di ridere — aveva sussurrato.

La nave accelerava sotto la spinta del vento; Hed rimpiccioliva, si offuscava in distanza. L’arpista del Supremo era venuto ad appoggiarsi alla murata, e il suo mantello grigio svolazzava dietro di lui come una bandiera. Gli occhi di Morgon indugiarono sul suo volto senza rughe, intoccato dal sole. La sua mente fu sfiorata dalla sensazione che in lui ci fosse qualcosa d’incongruente e di paradossale, un enigma che plasmava la chioma argentea e il fine profilo di quel volto.

L’arpista si volse, incrociando il suo sguardo.

Incuriosito Morgon domandò: — Qual è la vostra patria?

— Non ho patria. Sono nato a Lungold.

— La città dei maghi? Chi vi ha insegnato a suonare l’arpa?

— Molte persone. Ho ricevuto il mio nome dall’arpista del Morgol Cron, Tirunedeth, che mi insegnò le canzoni di Herun. Gli chiesi di averlo, prima che morisse.

— Cron — mormorò Morgon. — Ylcorcronlth?

— Sì.

— Lui governava Herun seicento anni fa.

— Io nacqui — disse tranquillamente l’arpista, — non molto dopo la fondazione di Lungold, un migliaio d’anni fa.

Morgon era immobile, a parte le lievi oscillazioni con cui il suo corpo si adeguava al rollio del vascello. Lievi tracce di luce si riflettevano e si spezzavano sul mare, oltre il volto che lo fissava con distacco. Sussurrò: — Non mi meraviglia che sappiate suonare così. Avete avuto mille anni per imparare sull’arpa ogni canzone del reame del Supremo. Non sembrate affatto vecchio. Mio padre appariva più anziano di voi, prima di morire. Siete figlio di un mago? — Poi abbassò lo sguardo sulle sue mani, poggiate sulle ginocchia, e aggiunse: — Scusatemi, non sono affari miei. Ero soltanto…

— Curioso? — L’arpista sorrise. — Voi avete curiosità molto insolite per un Principe di Hed.

— Lo so. È per questo che mio padre si decise a mandarmi a Caithnard… stavo cominciando a far troppe domande. Lui non sapeva come prendere la faccenda. Ma era un uomo saggio, e comprensivo, così mi lasciò andare. — Tacque, bruscamente, e la sua bocca s’increspò in un tremito.

L’arpista si volse a osservare la costa del continente, che si avvicinava. — Io non ho mai conosciuto mio padre. Nacqui senza un nome, nei sobborghi di Lungold, in un’epoca durante la quale i maghi, i Re e perfino lo stesso Supremo talora visitavano la città. E poiché non ho nessun legame con la terra e nessun talento per la magia, ho rinunciato da moltissimo tempo a far congetture su chi poteva essere mio padre.

Morgon tornò a fissarlo, con aria speculativa. — Danan Isig era vecchio quanto una pietra anche a quei tempi, e così Har di Osterland. Nessuno sa quando i maghi siano nati, ma se voi siete figlio di uno di loro oggi non c’è nessuno che possa contestarvelo.

— Non è importante. I maghi se ne sono andati; io non debbo niente a nessuno dei sovrani viventi a parte il Supremo. Al suo servizio io ho un nome, un posto, libertà di movimenti e di pensiero. Sono responsabile solo verso di lui, e lui mi tiene in considerazione per la mia musica e la mia discrezione, entrambe doti stagionate dagli anni. — Sfiorò le corde della sua arpa, che s’era messo a tracolla. — Non manca molto ad arrivare in porto.

Da lì a poco Morgon lo raggiunse, poggiandosi alla murata. La città mercantile di Caithnard, coi suoi moli, le locande e gli empori, era distesa innanzi a loro a semicerchio, terra fra due terre. Vascelli dalle vele arancio e oro dei mercanti di Herun stavano scendendo dal nord verso le ampie banchine. Sulla sommità del promontorio che formava uno dei corni della baia a mezzaluna c’era un insieme di edifici scuri, le cui pesanti mura di pietra e le cui stanze minuscole Morgon conosceva bene. L’immagine del volto magro e scherzoso del fratello di Raederle balenò nella sua mente. Strinse con forza la balaustra.

— Rood. Devo parlargli. Mi domando se sia ancora alla Scuola. Non ci vediamo da un anno.

— Ho parlato con lui soltanto due notti fa, quando pernottai alla Scuola, prima di fare la traversata per Hed. Ha appena preso la Toga d’Oro di Maestro Intermedio.

— Allora può darsi che sia tornato a casa sua per un poco. — La nave beccheggiò un’ultima volta sulle onde prima di addentrarsi nelle acque più lisce della baia, quindi la velocità diminuì mentre i marinai ammainavano le vele gridandosi istruzioni l’un l’altro. La voce di Morgon si assottigliò: — Mi chiedo cosa lui ne dirà…

Gli uccelli marini ondeggiavano sulle acque immobili come foglie che si lasciassero trasportare dal vento. I moli oltre cui la nave scivolava erano pieni di mercanzie che attendevano il loro turno, o in via di carico: rotoli di stoffa, casse, legname, vino, pellicce, animali. I marinai gridavano saluti ai colleghi a terra, i mercanti si chiamavano l’un l’altro.

— La nave di Lyle Orn salperà per Anuin con la marea, al tramonto — disse un mercante a Deth e a Morgon, prima che sbarcassero. — Potrete riconoscerla dalle vele gialle e rosse. Volete il vostro cavallo, signore?

— Andrò a piedi — disse Deth. E mentre il gruppo scendeva per la rampa davanti a loro si volse a Morgon. — C’è un enigma senza risposta nell’elenco dei Maestri, alla Scuola: Chi ha vinto la gara di enigmi con Peven di Aum?

Morgon si gettò la sacca su una spalla. Annuì. — Darò loro la risposta. Venite anche voi su alla Scuola?

— Più tardi.

— Ci vediamo quando sale la marea allora, signori — ricordò loro il mercante mentre scendevano a terra.

I due si separarono sulla strada di ciottoli di fronte al molo, e Morgon, svoltando a sinistra, riprese familiarità con quartieri in cui si era aggirato per anni. Era mezzogiorno, e le stradine tortuose della città brulicavano di mercanti, marinai provenienti dalle terre più diverse, suonatori ambulanti, cacciatori di pelli, studenti dalle toghe ampie i cui colori vividi ne indicavano il rango, uomini e donne di An dalle ricche vesti, forestieri di Ymris e di Herun. Con la sacca che gli oscillava dietro le spalle Morgon s’incamminò fra la folla, senza far caso al bailamme di voci e alle gomitate. Nei vicoli oltre il quartiere portuale trovò più quiete. La strada in cui infine girò tagliava la periferia, lasciandosi indietro le botteghe e le taverne, e saliva verso il promontorio che si stagliava sull’azzurro del mare.