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Confuso e sconcertato, Ged non disse nulla.

—  Più tardi, Diaspro — disse Veccia, con quel suo fare semplice. — Lascialo in pace per un po’.

—  Possiede l’abilità o il potere, altrimenti il custode non l’avrebbe lasciato entrare. Perché non ce lo mostra adesso, anziché più tardi? Giusto, Sparviero?

—  Io possiedo abilità e potere — disse Ged. — Mostrami quello che intendi.

—  Illusioni, naturalmente: trucchi, giochi di apparenze. Così!

Tendendo il dito, Diaspro pronunciò alcune parole strane: e nel punto che lui indicava, sul fianco della collina, tra l’erba verde sgorgò un rivoletto d’acqua che crebbe, finché l’acqua scaturita dalla sorgente prese a scorrere giù per il declivio. Ged immerse la mano nel ruscello e la sentì bagnata; bevve, e l’acqua era fresca. Tuttavia non poteva placare la sete, perché era soltanto un’illusione. Con un’altra parola, Diaspro arrestò l’acqua e l’erba ondeggiò asciutta nel sole. — Ora a te, Veccia — disse con quel suo sorriso sereno.

Veccia si grattò la testa, con aria cupa, ma prese in mano un po’ di terra e cominciò a cantare con voce stonata, modellandola e plasmandola con le dita scure, premendola, accarezzandola: e all’improvviso la terra divenne un minuscolo essere, come un calabrone o una mosca pelosa, che s’involò ronzando sopra la collina di Roke e svanì.

Ged restò a guardare, depresso. Lui conosceva solo la magia dei villaggi, gli incantesimi per chiamare le capre, guarire le verruche, spostare pesi o aggiustare le pentole.

—  Io non faccio simili trucchi — disse. Questo bastò a Veccia, che si mosse per proseguire; ma Diaspro ribatté: — Perché no?

—  La magia non è un gioco. Noi di Gont non la usiamo per il nostro piacere o per acquisire elogi — rispose altezzosamente Ged.

—  E per cosa la usate? — chiese Diaspro. — Per denaro?

—  No…! — Ma non gli venne in mente altro che potesse dire per mascherare la sua ignoranza e salvare il suo orgoglio. Diaspro rise, piuttosto bonariamente, e proseguì, conducendoli intorno alla collina di Roke. E Ged lo seguì, incupito e ferito: sapeva di essersi comportato da sciocco, e ne dava la colpa a Diaspro.

Quella notte si sdraiò, avviluppato nel mantello, sul pagliericcio della cella fredda e buia, nel silenzio assoluto della Grande Casa di Roke: e la stranezza di quel luogo e il pensiero degli incantesimi e delle magie che vi venivano compiuti cominciarono a opprimerlo. L’oscurità lo circondava, e lo invadeva il timore. Avrebbe desiderato essere dovunque tranne che a Roke. Veccia, però, si presentò alla porta, con una piccola sfera azzurrognola di luce incantata che gli oscillava sopra la testa per rischiarargli la via, e chiese se poteva entrare a parlare un po’. Chiese a Ged di Gont, e poi parlò con affetto delle proprie isole dello stretto Orientale, e raccontò che il fumo dei focolari dei villaggi veniva spinto attraverso quello stretto tranquillo, la sera, tra quelle isolette dai nomi buffi: Korp, Kopp e Holp, Venway e Vemish, Iffish, Koppish e Sneg. Quando schizzò i contorni di quelle terre sulle pietre del pavimento, per mostrarne a Ged la disposizione, le linee che tracciava con l’indice brillarono fioche, come se fossero state disegnate con un bastoncino d’argento, prima di svanire. Veccia era alla scuola da tre anni, e presto sarebbe stato proclamato incantatore: per lui, operare le arti minori della magia era come per un uccello volare. Eppure possedeva una dote innata ancora più grande: l’arte della bontà. Quella notte, e poi sempre dopo quell’occasione, offrì e donò a Ged la propria amicizia, un’amicizia sicura e aperta che lo Sparviero non poté fare a meno di ricambiare.

Eppure Veccia era amichevole anche con Diaspro, che aveva fatto fare a Ged la figura dello sciocco quel primo giorno, sulla collina di Roke. Ged non l’aveva dimenticato, e a quanto pareva non l’aveva dimenticato neppure Diaspro, che gli parlava sempre in tono educato e con un sorriso beffardo. Ged non tollerava che il suo orgoglio fosse sminuito o divenisse oggetto di condiscendenza. Perché nessuno di loro, nonostante i trucchi ingegnosi, aveva salvato un villaggio mediante la magia. Di nessuno di loro Ogion aveva scritto che sarebbe diventato il più grande mago di Gont.

Perciò, facendo appello all’orgoglio, impegnò tutta la forza di volontà nei compiti che gli venivano assegnati: le lezioni e le arti e le storie e le abilità insegnate dai grigiovestiti maestri di Roke, che venivano chiamati «i nove».

Per una parte della giornata studiava col maestro cantore, imparando le gesta degli eroi e le ballate della saggezza, incominciando dal più antico di tutti i canti, la Creazione di Éa. Poi, insieme a una decina di altri ragazzi, si esercitava col maestro del vento nelle arti metereologiche. Trascorrevano intere giornate, in primavera e in estate, nella baia di Roke, a bordo di piccole imbarcazioni, esercitandosi a guidarle con la parola, e ad acquietare le onde, e a parlare al vento del mondo, e a suscitare il vento magico. Erano arti molto complesse, e spesso Ged veniva colpito alla testa dal boma che girava violentemente quando la barca virava, spinta da un vento che all’improvviso spirava al contrario, oppure la sua imbarcazione e un’altra si scontravano sebbene avessero a disposizione tutta la baia per muoversi, oppure tutti e tre i ragazzi nella sua barca finivano di colpo in acqua quando si levava un’ondata enorme e imprevista. Ci furono spedizioni più tranquille a riva, in altri giorni, col maestro erborista che insegnava le qualità e le proprietà dei vegetali; e il maestro delle mani insegnava la prestidigitazione e i giochi d’abilità e le arti minori della metamorfosi.

Ged riusciva bene in tutti questi studi, e dopo un mese se la cavava meglio di altri ragazzi che erano arrivati a Roke un anno prima di lui. I trucchi dell’illusione, soprattutto, gli venivano così facili che gli sembrava di conoscerli fin dalla nascita e di avere solo bisogno che gli venissero ricordati. Il maestro delle mani era un vecchio gentile e sereno, che trovava un divertimento inesauribile nello spirito e nella bellezza delle arti da lui insegnate. Ben presto Ged non provò più soggezione davanti a lui: gli chiedeva di questo e di quell’incantesimo, e il maestro sorrideva e gli mostrava tutto ciò che gli era stato chiesto. Ma un giorno, poiché era deciso a svergognare finalmente Diaspro, Ged disse al maestro delle mani, nel cortile delle apparenze: — Signore, tutti questi incantesimi si somigliano: quando ne conosci uno li conosci tutti. E appena cessa la tessitura dell’incantesimo, l’illusione svanisce. Ora, se io trasformo un sassolino in diamante… — (e lo fece, con una parola e un brusco movimento del polso) — cosa devo fare perché il diamante rimanga diamante? Come si può bloccare l’incantesimo della metamorfosi per farlo durare?

Il maestro delle mani guardò la gemma che scintillava sul palmo della mano di Ged, fulgida come il fior fiore del tesoro di un drago. Mormorò una parola, Tolk, e il sassolino tornò a essere un grigio e ruvido frammento di roccia. Il maestro lo prese e lo mostrò nel cavo della mano. — Questo è un sasso: tolk nella Vera Favella — disse, alzando lo sguardo verso Ged, con aria mite. — Un pezzo della pietra di cui è formata l’isola di Roke, un frammento della terraferma su cui vivono gli uomini. È se stesso. È parte del mondo. Con la metamorfosi-illusione puoi farlo sembrare un diamante o un fiore o una mosca o un occhio o una fiamma… — La pietruzza passò da una forma all’altra, via via che il maestro le nominava, e poi ritornò sasso. — Ma è soltanto apparenza. L’illusione inganna i sensi di chi osserva: lo induce a vedere, udire e sentire che l’oggetto è mutato. Ma non muta l’oggetto stesso. Per cambiare questo sasso in una gemma, devi mutare il suo vero nome. E far questo, figlio mio, anche a un così piccolo frammento di mondo, significa cambiare il mondo stesso. Si può fare. In verità si può fare. È l’arte del maestro della metamorfosi: e tu l’imparerai, quando sarai pronto ad apprenderla. Ma non dovrai cambiare una sola cosa, un solo sassolino o un solo granello di sabbia, se non quando saprai quale bene e quale male deriveranno da quell’atto. Il mondo è in equilibrio. Il potere di trasmutare e di evocare può alterare l’equilibrio del mondo. È pericoloso, quel potere. Molto pericoloso. Devi seguire la conoscenza e servire la necessità. Accendere una candela è gettare un’ombra…