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Così fece piacere a tutti i presenti, eccettuato Ged. Ged si unì agli elogi con la voce, ma non col cuore. — Io avrei saputo fare meglio — si disse, con rabbiosa invidia; e da quel momento tutta la gioia della serata divenne amarezza.

L’OMBRA SCATENATA

Quella primavera Ged vide di rado Veccia e Diaspro, perché adesso, essendo incantatori, studiavano col maestro degli schemi nel segreto del Bosco Immanente, dove nessuno degli apprendisti poteva metter piede. Ged restò nella Grande Casa, lavorando con i maestri per apprendere tutte le arti esercitate dagli incantatori, che operano magie ma non portano bastone: far levare il vento, cambiare il tempo, trovare e legare, e le arti dei fucinatori d’incantesimi e degli scrittori d’incantesimi, degli indovini, dei cantori, dei guaritori e degli erboristi. La notte, solo nella sua cella, con una piccola sfera di luce incantata che ardeva sopra il libro al posto di una lampada o di una candela, studiava le Rune Avanzate e le Rune di Éa, che vengono usate nei Grandi Incantesimi. Tutte quelle arti gli erano facili, e gli studenti dicevano che questo o quel maestro aveva affermato che il ragazzo di Gont era l’allievo più pronto che mai fosse stato a Roke; e correvano voci sul conto dell’otak: si diceva che fosse uno spirito mimetizzato e sussurrasse segreti all’orecchio di Ged. Anzi, si diceva addirittura che il corvo dell’arcimago avesse salutato Ged al suo arrivo come «futuro arcimago». Che credessero o no a queste storie e avessero o no simpatia per Ged, quasi tutti i suoi compagni lo ammiravano, e si affrettavano a seguirlo quando — raramente — gli veniva voglia di scherzare e si univa a loro per guidare i loro giochi nelle serate di primavera. Ma era quasi sempre indaffarato e orgoglioso e suscettibile, e si teneva in disparte. Poiché Veccia era assente, non aveva amici e non ne sentiva la mancanza.

Aveva quindici anni, ed era molto giovane per apprendere le arti superiori dei maghi, coloro che portano il bastone; ma era così pronto ad apprendere tutte le arti dell’illusione che il maestro delle metamorfosi, che era giovane lui stesso, cominciò presto a insegnargli separatamente dagli altri, e a parlargli dei veri incantesimi della forma. Spiegò che se una cosa va mutata veramente in un’altra bisogna chiamarla col nuovo nome per tutta la durata dell’incantesimo, e gli chiarì che questo influisce sui nomi e sulla natura delle cose che circondano l’oggetto trasformato. Parlò dei pericoli delle metamorfosi, soprattutto quando il mago trasmuta la propria forma e così rischia di restare prigioniero del proprio incantesimo. A poco a poco, spinto dalla sicurezza con cui il ragazzo capiva, il giovane maestro non si limitò più a parlargli di questi misteri. Gli insegnò prima uno e poi un altro Grande Incantesimo della metamorfosi, e gli diede da studiare il Libro delle Forme. Lo fece all’insaputa dell’arcimago, e fu un’imprudenza: tuttavia non intendeva fare del male.

Ged, adesso, lavorava anche col maestro evocatore, ma questo era un uomo severo, vecchio e indurito dalla magia cupa e profonda che insegnava. Non si occupava d’illusioni ma solo della vera magia: l’evocazione di energie come la luce e il calore, e la forza che attira la calamita, e le forze che gli uomini percepiscono come peso, forma, colore, suono: poteri reali, tratti dalle immense e sconfinate energie dell’universo, che gli incantesimi e gli usi dell’uomo non potevano esaurire o squilibrare. Le invocazioni dei maghi della pioggia e dei maestri del mare erano arti già note ai suoi allievi, ma era lui a mostrare perché il vero mago usa tali incantesimi solo in caso di necessità, poiché evocare tali forze della terra significa cambiare la terra di cui fanno parte. — La pioggia su Roke può portare la siccità su Osskil — diceva, — e una bonaccia sullo stretto Orientale può essere tempesta e rovina in quello Occidentale, se non sapete quello che fate.

Quanto all’evocazione di cose reali e di persone viventi, e degli spiriti dei defunti, e le invocazioni degli invisibili, tali incantesimi sono il culmine dell’arte dell’evocatore e del potere del mago, e il maestro non ne parlava quasi mai. Un paio di volte Ged tentò di indurlo a parlargli un po’ di quei misteri; ma il maestro tacque, guardandolo a lungo, cupamente, fino a quando Ged si sentì inquieto e non disse più nulla.

Talvolta era inquieto anche quando operava gli incantesimi minori che l’evocatore gli insegnava. C’erano certe rune, in certe pagine del Libro della Tradizione, che gli sembrava di conoscere sebbene non ricordasse in quale testo le avesse già viste. C’erano certe frasi, negli incantesimi dell’evocazione, che non gli piaceva pronunciare. Gli facevano pensare, per un istante, a ombre in una stanza buia, a una porta chiusa e a ombre che si protendevano verso di lui dall’angolo accanto alla porta. Lui si affrettava ad accantonare quei pensieri o quei ricordi e continuava. Quei momenti di paura e di oscurità, si diceva, erano causati solo dalle ombre della sua ignoranza. E più imparava e meno aveva da temere, fino a quando, nel suo pieno potere di mago, non avrebbe dovuto temere nulla al mondo, assolutamente nulla.

Nel secondo mese di quell’estate, tutta la scuola si radunò di nuovo nella Grande Casa per festeggiare la notte della luna e la lunga danza, che in quell’anno cadevano insieme, in una festa di due notti, come avviene soltanto una volta ogni cinquantadue anni. Durante tutta la prima notte, la più corta notte di plenilunio dell’anno, i flauti suonarono nei campi, e le strette viuzze di Thwil si riempirono di tamburi e di torce, e l’eco dei canti si diffuse sulle acque della baia di Roke, rischiarate dalla luna. Quando si levò il sole, la mattina dopo, i cantori di Roke intonarono le lunghe Gesta di Erreth-Akbe, che narrano come furono erette le bianche torri di Havnor e descrive i viaggi di Erreth-Akbe dall’isola Vecchia, Éa, per tutto l’arcipelago e tutti gli stretti fino a quando nello stretto Occidentale, al limitare dell’oceano aperto, incontrò il drago Orm; e le sue ossa, tra i frammenti dell’armatura, giacciono frammiste alle ossa del drago sulla spiaggia della solitaria Selidor, ma la sua spada, posta in cima alla più alta torre di Havnor, fiammeggia tuttora rossa nel tramonto sopra il mare Interno. Allorché il canto ebbe termine, incominciò la lunga danza. Cittadini e maestri e studenti e contadini, tutti insieme, uomini e donne, danzarono nella polvere calda e nel crepuscolo per tutte le strade di Roke, fino alle rive del mare, al rullo dei tamburi e al suono dei pifferi e dei flauti. Scesero danzando al mare, sotto la luna che aveva superato di notte la fase del plenilunio, e la musica si perse nel frastuono dei frangenti. Quando l’oriente si schiarì, risalirono sulle spiagge e per le strade; e i tamburi tacevano e soltanto i flauti pigolavano con note acute e sommesse. Così veniva fatto su ogni isola dell’arcipelago, quella notte: una sola danza e una sola musica legavano insieme le terre divise dal mare.

Dopo che la lunga danza si fu conclusa, moltissimi dormirono per tutto il giorno, e si riunirono di nuovo la sera per mangiare e bere. C’era un gruppo di giovani, apprendisti e incantatori, che avevano portato la cena dal refettorio per banchettare in un cortile della Grande Casa: c’erano Veccia, Diaspro e Ged e altri sei o sette, e alcuni ragazzi in permesso temporaneo dalla Torre Isolata, perché la festa aveva indotto perfino Kurremkarmerruk a uscire dalla sua dimora. Stavano tutti mangiando e ridendo ed eseguendo trucchi che avrebbero suscitato meraviglia alla corte di un re. Un ragazzo aveva illuminato il cortile con cento stelle di luce incantata, colorate come gemme, che oscillavano in un lento corteo serrato tra loro e le stelle vere; e altri due ragazzi giocavano con palle di fiamma verde e birilli che spiccavano balzi e schizzavano via all’avvicinarsi della palla; e intanto Veccia stava seduto a gambe incrociate a mezz’aria, mangiando pollo arrosto. Alcuni dei ragazzi più giovani tentarono di trascinarlo al suolo, ma Veccia si limitò a fluttuare un po’ più in alto, al di fuori della loro portata, e restò seduto calmissimo nell’aria. Di tanto in tanto gettava via un osso di pollo, che si trasformava in civetta e s’involava chiurlando tra la rete delle luci-stelle. Ged lanciava frecce di mollica di pane contro le civette e le abbatteva, e quando toccavano il suolo restavano là, ossa e mollica, e l’illusione spariva. Ged tentò anche di raggiungere Veccia a mezz’aria, ma poiché non conosceva la chiave dell’incantesimo doveva sbattere le ali per tenersi librato, e tutti ridevano dei suoi voli e dei suoi tonfi. Ged continuò con quella buffonata per divertire gli altri, ridendo con loro, perché dopo quelle due lunghe notti di danze e di chiaro di luna e di musica e di magia era di umore un po’ folle, pronto a tutto ciò che poteva capitare.