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Ged non sapeva niente di tutto questo. Per quattro settimane di quell’estate afosa giacque cieco e sordo e muto, sebbene talvolta gemesse e gridasse come un animale. Infine, quando le pazienti arti del maestro erborista operarono la loro funzione, le ferite cominciarono a rimarginarsi e la febbre l’abbandonò. A poco a poco sembrò che riacquistasse l’udito, anche se non parlava mai. Un sereno giorno d’autunno il maestro erborista aprì le imposte della stanza in cui giaceva Ged. Dopo la tenebra di quella notte sulla collina di Roke, Ged aveva conosciuto soltanto l’oscurità: ora rivide la luce del giorno e il sole che splendeva. Si nascose la faccia sfregiata tra le mani e pianse.

Tuttavia, quando venne l’inverno, riusciva a parlare solo balbettando, e il maestro erborista lo tenne nelle stanze della guarigione, cercando di condurre gradualmente il suo corpo e la sua mente al recupero delle forze. Era l’inizio della primavera quando finalmente il maestro lo lasciò andare, inviandolo per prima cosa a promettere devozione all’arcimago Gensher. Ged non aveva potuto compiere tale dovere insieme a tutti gli altri della scuola, quando Gensher era giunto a Roke.

Nessuno dei suoi compagni era stato autorizzato a fargli visita durante i primi mesi della malattia; e ora, mentre passava, alcuni si chiedevano: — Chi è, quello? — Un tempo era agile e leggero e forte: e adesso, claudicante per la sofferenza, procedeva esitante e non alzava il volto, che nella metà sinistra era bianco di cicatrici. Evitò coloro che lo conoscevano e coloro che non lo conoscevano, e si avviò direttamente al cortile della fontana. Là dove una volta aveva atteso Nemmerle, Gensher lo stava aspettando.

Come il vecchio arcimago, anche il nuovo era ammantato di bianco; ma come quasi tutti gli abitanti di Way e dello stretto Orientale, Gensher aveva la pelle nera, e i suoi occhi erano neri sotto le folte sopracciglia.

Ged s’inginocchiò e gli promise devozione e ubbidienza. Gensher rimase in silenzio per qualche istante.

—  So ciò che hai fatto — disse infine, — ma non ciò che sei. Non posso accettare la tua devozione.

Ged si alzò, e si appoggiò con una mano al tronco del giovane albero accanto alla fontana per sostenersi. Faticava ancora moltissimo a trovare le parole. — Devo lasciare Roke, mio signore?

—  Vuoi lasciare Roke?

—  No.

—  Cosa vuoi?

—  Restare. Imparare. Annullare… il male…

—  Neppure Nemmerle ha potuto farlo… No, non ti lascerei andar via da Roke. Nulla ti protegge, qui, tranne il potere dei maestri e le difese poste su quest’isola che tengono lontane le creature del male. Se tu te ne andassi ora, la cosa che hai scatenato ti troverebbe subito ed entrerebbe in te e s’impossesserebbe di te. Non saresti più un uomo ma un gebbeth, una marionetta che compirebbe la volontà dell’ombra maligna da te chiamata alla luce del sole. Devi restare qui fino a quando acquisterai forza e saggezza sufficienti per difendertene… se mai ci riuscirai. Anche ora ti attende. Ti attende certamente. L’hai rivista, dopo quella notte?

—  Nei sogni, mio signore. — Dopo un po’, Ged proseguì, parlando con fatica e vergogna: — Nobile Gensher, io non so cosa fosse… ciò che è uscito dall’incantesimo e mi ha assalito…

—  Neppure io lo so. Non ha nome. Tu hai un grande potere innato, e l’hai usato malamente, per operare un incantesimo che non potevi dominare, non sapendo come quell’incantesimo influisca sull’equilibrio della luce e della tenebra, della vita e della morte, del bene e del male. E ti sei lasciato indurre a questo dall’orgoglio e dall’odio. Ti stupisci che il risultato sia stato la rovina? Tu hai evocato uno spirito dei morti, ma con lui è venuto uno dei Poteri della non-vita. È venuto, senza che tu lo chiamassi, da un luogo dove non ci sono nomi. È maligno, e vuole compiere il male per tuo tramite. Il potere con cui l’hai chiamato gli dà potere su di te: siete collegati. È l’ombra della tua arroganza, l’ombra della tua ignoranza, l’ombra che tu getti. Un’ombra ha un nome?

Ged si sentiva in preda alle vertigini. Infine disse: — Sarebbe stato meglio che fossi morto.

—  Chi sei tu per giudicarlo, tu, l’uomo per cui Nemmerle ha dato la vita?… Qui sei al sicuro. Vivrai qui, e continuerai la tua preparazione. Mi dicono che sei intelligente. Continua il tuo lavoro. Fallo bene. È tutto ciò che puoi fare.

Così concluse Gensher; e all’improvviso sparì, com’è consuetudine dei maghi. La fontana zampillava nel sole, e per un po’ Ged la guardò e ne ascoltò la voce, pensando a Nemmerle. Una volta, in quel cortile, aveva avuto la sensazione di essere lui stesso una parola pronunciata dalla luce del sole. Adesso aveva parlato anche la tenebra: una parola che non poteva essere richiamata.

Lasciò il cortile e tornò nella sua vecchia stanza nella torre meridionale, che avevano lasciato vuota per lui. Rimase là, solo. Quando il gong chiamò a cena, andò; ma non parlò quasi con gli altri ragazzi alla lunga tavola, e non alzò la faccia verso di loro, neppure verso quelli che lo salutavano con maggior gentilezza. Perciò, dopo un giorno o due, tutti lo lasciarono in pace. Essere lasciato in pace era ciò che voleva, perché temeva il male che poteva fare o dire involontariamente.

Non c’erano né Veccia né Diaspro, e Ged non chiese di loro. Adesso i ragazzi che lui aveva guidato e sui quali aveva signoreggiato erano tutti più avanti di lui, a causa dei mesi che aveva perso; e durante la primavera e l’estate studiò insieme a ragazzi più giovani di lui. E non brillava in mezzo a loro, perché le parole di qualunque incantesimo, perfino il più semplice sortilegio d’illusione, gli uscivano a fatica dalle labbra, e le sue mani esitavano in ogni compito.

In autunno doveva ritornare alla Torre Isolata per studiare col maestro dei nomi. Il compito che un tempo aveva temuto, ora lo allettava, perché desiderava il silenzio e l’apprendimento in cui non si operavano incantesimi e in cui il potere che lui sapeva ancora di possedere non sarebbe stato chiamato ad agire.

La notte prima della sua partenza per la torre, un visitatore entrò nella sua stanza: indossava un mantello da viaggio marrone e portava un bastone di quercia col puntale di ferro. Ged si alzò, vedendo il bastone da mago.

—  Sparviero…

Al suono della voce, Ged levò gli occhi: era Veccia, solido e squadrato come sempre; la faccia nera e camusa era più vecchia, ma il sorriso era immutato. Sulla sua spalla stava rannicchiata una bestiola screziata, con gli occhi vivaci.

—  È rimasto con me durante la tua malattia, e adesso mi duole separarmene. E ancor più mi dispiace separarmi da te. Ma sto per tornare a casa. Qui, hoeg! Va’ dal tuo vero padrone! — Veccia accarezzò l’otak e lo posò sul pavimento. La bestiola andò a sedersi sul pagliericcio di Ged e cominciò a forbirsi il pelo con la linguetta bruna e secca simile a una fogliolina. Veccia rise, ma Ged non riuscì neppure a sorridere. Si chinò per nascondere la faccia, accarezzando l’otak.

—  Credevo che non saresti venuto, da me — disse.

Non aveva pronunciato queste parole come un rimprovero, ma Veccia replicò: — Non ho potuto venire. Me l’aveva proibito il maestro erborista; e dall’inverno sono stato con lui nel bosco, isolato anch’io. Non ero libero, fino a quando mi sono guadagnato il bastone. Ascolta: quando anche tu sarai libero, vieni allo stretto Orientale. Ti aspetterò. Là ci sono piccole cittadine gaie, e i maghi sono accolti bene.

—  Libero… — mormorò Ged, e si sforzò un poco, cercando di sorridere.

Veccia lo guardò, non proprio come aveva fatto un tempo: con lo stesso affetto, ma forse con più magia. Disse gentilmente: — Non resterai legato per sempre a Roke.

—  Ecco… Ho pensato che forse potrò andare a lavorare col maestro nella torre, diventare uno di coloro che cercano i nomi perduti nei libri e nelle stelle, e così… così non farò altro male, anche se non farò molto bene…