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E se lui doveva incontrarla, voleva incontrarla sul mare. Non sapeva bene perché fosse così, eppure aveva terrore d’incontrarla di nuovo sulla terraferma. Dal mare salgono tempeste e mostri, ma non potenze maligne: il male appartiene alla terra. Non ci sono mari né fiumi né fonti, nella terra tenebrosa dove Gel era andato una volta. La morte è il luogo arido. Sebbene il mare fosse un pericolo per lui, in quella brutta stagione, quel pericolo e quell’instabilità mutevole gli sembravano una difesa. E quando avesse incontrato l’ombra alla conclusione della sua follia, pensava, forse almeno avrebbe potuto afferrarla mentre quella afferrava lui, e trascinarla col peso del proprio corpo e col peso della propria morte, giù, nella tenebra del mare profondo, da dove non avrebbe più potuto risorgere. E così, almeno, la sua morte avrebbe posto fine al male che lui aveva scatenato da vivo.

Veleggiò sul mare mosso, sopra il quale le nubi aleggiavano pendendo in immensi veli di lutto. Non suscitò un vento magico ma sfruttò il vento del mondo, che spirava energico da nordovest; e mentre lui conservava la sostanza della vela intessuta d’incantesimi sussurrando spesso una parola, la vela si assestava e si girava da sola per prendere il vento. Se non avesse usato quella magia, su quel mare turbolento avrebbe faticato a mantenere in rotta la piccola imbarcazione difettosa. Procedeva e vigilava, guardandosi intorno. La moglie del pescatore gli aveva offerto due pagnotte e un orcio d’acqua; e dopo qualche ora, quando avvistò la Roccia di Kameber, l’unica isola esistente fra Gont e Oranéa, mangiò e bevve e pensò con riconoscenza alla taciturna donna di Gont che gli aveva donato il cibo. Navigò oltre quella terra appena intravista, bordeggiando più verso occidente, in un’acquerugiola fine che sulla terraferma era forse nevischio. Non c’erano altri suoni che gli scricchiolii della barca e il lieve sciaguattio delle onde contro la prua. Non incontrò né barche né uccelli. Nulla si muoveva, tranne l’acqua nel suo eterno movimento e le nubi aleggianti, le nubi che ricordava vagamente intorno a sé mentre lui, in forma di falcone, volava verso oriente sulla stessa rotta che adesso seguiva verso occidente; e lui aveva guardato allora dall’alto il mare grigio, come ora levava lo sguardo verso il grigio cielo.

Quando guardava davanti a sé non scorgeva nulla. Si alzò, agghiacciato, stanco di scrutare quel vuoto. — Vieni, dunque — mormorò. — Vieni. Cos’aspetti, ombra? — Non ci fu risposta, non ci furono movimenti più tenebrosi nelle nebbie e onde scure. Eppure Ged sapeva, con crescente certezza, che la cosa non era lontana e cercava ciecamente lungo la sua pista ormai fredda. E all’improvviso lui gridò: — Sono qui, io, Ged lo Sparviero, e chiamo la mia ombra!

La barca scricchiolò, le onde fremettero, il vento sibilò sulla bianca vela. Gli istanti trascorsero. Ged attendeva ancora, con una mano sull’albero di legno di tasso dell’imbarcazione, scrutando nella gelida acquerugiola che lentamente scendeva in linee irregolari attraverso il mare, dal nord. Gli istanti trascorsero. Poi, lontano, tra la pioggia, sull’acqua, Ged vide venire l’ombra.

Aveva abbandonato il corpo del rematore osskiliano, Skiorh, e non lo seguiva più come gebbeth tra i venti e sul mare. E non aveva la forma di bestia nella quale lui l’aveva vista sulla collina di Roke e nei sogni. Eppure adesso aveva una forma, anche alla luce del giorno. Nell’inseguimento e nella lotta con Ged, sulle brughiere, aveva attinto potere da lui, assorbendolo; e forse lui, chiamandola a voce alta nella luce del giorno le aveva dato o imposto una forma e un sembiante. Certamente adesso aveva una parvenza d’uomo, sebbene, essendo un’ombra, non gettasse ombre. Veniva sopra il mare, dalle Fauci di Enlad, verso Gont, scrutando nel vento: e la pioggia gelida l’attraversava.

Poiché era semiaccecata dalla luce del giorno, e poiché era stato lui a chiamarla, Ged la vide prima che l’ombra vedesse lui. La riconobbe, come quella riconosceva lui, tra tutti gli esseri, tra tutte le ombre.

Nella terribile solitudine del mare invernale, Ged vide la cosa che temeva. Il vento pareva sospingerla più lontano dalla barca, e le onde correvano confondendogli la vista, eppure sembrava sempre più vicina. Ged non avrebbe saputo dire se si muoveva o no. Adesso l’ombra l’aveva scorto. Sebbene nella sua mente non ci fossero altro che orrore e paura del contatto, la fredda e nera sofferenza che risucchiava la sua vita, Ged attendeva immoto. Poi all’improvviso, a voce alta, chiamò il vento magico perché spirasse forte nella bianca vela, e la barca balzò attraverso le grige onde verso la cosa cupa che aleggiava nel vento.

In silenzio l’ombra, vacillando, si voltò e fuggì.

Fuggì sopravvento, verso nord. E sopravvento la barca di Ged la seguì: la velocità dell’ombra contro la magia, il vento piovoso contro l’una e l’altra. E il giovane gridò alla sua barca, e alla vela e al vento e alle onde, come un cacciatore grida ai suoi segugi quando un lupo fugge in piena vista davanti a loro; e portò nella vela intessuta d’incantesimi un vento che avrebbe squarciato qualunque vela di stoffa, e spinse l’imbarcazione sopra il mare come uno spruzzo di spuma, sempre più vicino alla cosa che fuggiva.

Poi l’ombra deviò, descrivendo un semicerchio, e all’improvviso apparve più fioca e scomposta, meno simile a un uomo e più simile a fumo portato dal vento; e tornò indietro e corse sottovento, con la tempesta, come se si dirigesse verso Gont.

Con le mani e gli incantesimi Ged fece virare la barca, che balzò dalle onde come un delfino, rollando. Ancora più veloce di prima Ged inseguì l’ombra, ma quella divenne ancor più indistinta ai suoi occhi. La pioggia, frammista al nevischio e alla neve, cadeva sferzante sulle sue spalle e sulla guancia sinistra, e lui non riusciva a vedere più in là di un centinaio di braccia. Ben presto la tempesta rinforzò e l’ombra si perse. Eppure Ged era sicuro di conoscere il suo percorso, come se seguisse le orme di una bestia sulla neve anziché un fantasma che fuggiva sull’acqua. Sebbene il vento spirasse nella sua direzione, mantenne nella vela il canoro vento magico, e fiocchi di spuma schizzavano dall’ottusa prua della barca che volava schiaffeggiando l’acqua.

Per molto tempo selvaggina e cacciatore mantennero quella strana rotta velocissima, e il cielo si andava oscurando rapidamente. Ged comprese, calcolando la rapidità con cui aveva navigato in quelle ultime ore, che adesso doveva trovarsi a sud di Gont, diretto verso Spevy o Torheven, o addirittura oltre quelle isole, verso il mare aperto. Non lo sapeva. Non gliene importava. Era in caccia, all’inseguimento, e la paura correva precedendolo.

All’improvviso vide l’ombra, per un momento, non lontano da lui. Il vento del mondo s’era attenuato, e il nevischio battente della tempesta aveva lasciato posto a una nebbia gelida e lacerata che continuava a infittirsi. Attraverso quella nebbia Ged scorse l’ombra che fuggiva un po’ sulla destra della sua rotta. Parlò al vento e alla vela e girò il timone e la inseguì di nuovo, anche se era di nuovo un inseguimento alla cieca: la nebbia si addensava rapidamente, ribollendo e sbrindellandosi là dove incontrava il vento incantato, serrandosi tutt’intorno alla barca in un pallore che smorzava la luce e la vista. E mentre pronunciava la prima parola dell’incantesimo per disperderla, Ged vide di nuovo l’ombra, ancora sulla destra della sua rotta ma vicinissima: e procedeva lentamente. La nebbia soffiava attraverso la forma indistinta e senza volto della testa: eppure questa era modellata come in un uomo, ma deforme e mutevole come un’ombra umana. Ged fece virare ancora una volta la barca, credendo di aver spinto a terra il nemico; in quell’istante l’ombra svanì e fu la sua barca ad arenarsi, infrangendosi sugli scogli che la nebbia turbinante aveva nascosto alla sua vista. Ged venne quasi sbalzato fuori, ma si aggrappò all’albero prima di essere investito da un altro frangente. Fu una grande ondata, che sollevò la piccola imbarcazione e la fece ricadere su una roccia, come un uomo potrebbe sollevare e schiantare il guscio di una chiocciola.

Il bastone foggiato da Ogion era robusto e incantato. Non si spezzò, e galleggiò sull’acqua come un tronco asciutto. Ged, che continuava a tenerlo stretto, venne riportato indietro quando il frangente rifluì dallo scoglio: si ritrovò nell’acqua, al sicuro — fino all’ondata successiva — dal pericolo di essere scaraventato sulle rocce. Accecato e soffocato dall’acqua salmastra, tentò di tenere la testa al di sopra dell’acqua e di combattere l’enorme forza del mare. C’era una spiaggia sabbiosa a poca distanza dagli scogli: l’intravide un paio di volte mentre cercava di allontanarsi a nuoto dalla nuova ondata. Con tutte le forze e con l’aiuto del potere del bastone lottò per raggiungere quella spiaggia. Non riuscì ad avvicinarsi. Lo slancio e il riflusso delle ondate lo sbatacchiavano avanti e indietro come uno straccio, e il freddo del mare profondo risucchiava rapidamente il calore del suo corpo, indebolendolo al punto che non poté più muovere le braccia. Aveva perso di vista gli scogli e la spiaggia, e non sapeva in quale direzione era rivolto. C’era solo il tumulto delle acque intorno a lui, sotto di lui, sopra di lui: e lo accecava, lo soffocava, lo sommergeva.