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—  E i cuochi non sono maghi, purtroppo — replicò Millefoglie, inginocchiandosi per vedere se l’ultima infornata di focacce che cuoceva sui mattoni del focolare prendeva colore. — Ma ancora non capisco, Sparviero. Ho visto mio fratello, e perfino il suo apprendista, far luce in un luogo buio dicendo soltanto una parola: e la luce risplende, è fulgida, e non è una parola ma una luce che rischiara la strada.

—  Sì — fece Ged. — La luce è potere. Un grande potere, grazie al quale noi esistiamo, ma che esiste al di là delle nostre esigenze, in se stesso. La luce del sole e delle stelle è tempo, e il tempo è luce. Nella luce del sole, nei giorni e negli anni, c’è la vita. In un luogo buio la vita può chiamare la luce, nominandola. Ma di solito, quando vedi un mago nominare o chiamare qualcosa perché appaia, non è lo stesso: non fa appello a un potere più grande di lui, e ciò che appare è soltanto illusione. Chiamare qualcosa che non c’è, chiamarla dicendone il vero nome, è una grande arte, che non si deve usare alla leggera. Non per soddisfare la fame. Millefoglie, il tuo piccolo drago ha rubato una focaccia.

Millefoglie aveva ascoltato così attenta, fissando Ged, che non aveva visto l’harrekki sgattaiolare giù dal gancio del paiolo dove stava al calduccio e afferrare una focaccia più grossa di lui. La ragazza prese sulle ginocchia l’esserino scaglioso e l’imboccò, riflettendo su ciò che le aveva detto Ged.

—  Quindi non evocheresti un vero sformato di carne senza turbare ciò di cui parla sempre mio fratello… Ho dimenticato come si chiama…

—  L’equilibrio — disse Ged, concisamente, perché lei era molto seria.

—  Sì. Ma quando hai fatto naufragio sei partito con una barca costruita quasi interamente d’incantesimi, e non imbarcava acqua. Era illusione?

—  Be’, in parte era illusione, perché m’inquieta vedere il mare che penetra dai buchi della mia barca, perciò li ho rattoppati per amore del suo aspetto. Ma la forza dell’imbarcazione non era illusione né evocazione: era data da un’altra arte, da un incantesimo legante. Il legno era legato come un tutto unico, una barca. Cos’è una barca se non qualcosa che non lascia passare l’acqua?

—  Io ho sgottato a bordo di alcune barche che la lasciavano passare — disse Gazzamarina.

—  Be’, anche la mia l’avrebbe lasciata passare se non avessi mantenuto continuamente l’incantesimo. — Ged si chinò dal suo angolo e prese dai mattoni una focaccia, rigirandosela tra le mani. — Anch’io ho rubato una focaccia.

—  E allora ti sei scottato le dita. E quando soffrirai la fame sul deserto d’acqua tra le isole lontane penserai a questa focaccia e dirai: Ah, se non l’avessi rubata, adesso potrei mangiarla, ahimè! Ora mangerò quella di mio fratello, così soffrirà la fame insieme a te…

—  È così che si conserva l’equilibrio — osservò Ged, mentre Millefoglie prendeva e masticava una focaccia caldissima, semitostata; e lei ridacchiò e si mandò il boccone di traverso. Ma poco dopo, ridiventata seria, disse: — Vorrei capire veramente quello che mi dici. Sono troppo stupida.

—  Sorellina — replicò Ged, — è colpa mia, che non sono bravo a spiegare. Se avessimo più tempo…

—  Avremo più tempo — dichiarò Millefoglie. — Quando mio fratello tornerà a casa, tu verrai con lui, almeno per un po’, non è vero?

—  Se potrò — rispose gentilmente lui.

Ci fu una breve pausa; poi Millefoglie chiese, osservando l’harrekki che stava risalendo sul gancio: — Dimmi questo soltanto, se non è un segreto: quali altri grandi poteri ci sono, oltre alla luce?

—  Non è un segreto. Tutto il potere è uno solo nella fonte e nel fine, credo. Anni e distanze, stelle e candele, acqua e vento e magia, l’abilità della mano di un uomo e la saggezza nella radice di un albero: tutti hanno origine comune. Il mio nome, e il tuo, e il vero nome del sole, o una sorgente d’acqua, o un bimbo non ancora nato, sono tutti sillabe della grande parola che viene pronunciata lentamente dallo splendore delle stelle. Non c’è altro potere. Non c’è altro nome.

Arrestando il coltello sul legno intagliato, Gazzamarina chiese: — E la morte?

La ragazza ascoltò, chinando la lucente testolina nera.

—  Per ogni parola da pronunciare — rispose lentamente Ged, — dev’esserci silenzio. Prima o dopo. — Poi si alzò all’improvviso, dicendo: — Non ho il diritto di parlare di queste cose. La parola che avevo da dire l’ho detta male. È meglio che io taccia: non parlerò più. Forse non esiste un vero potere oltre alla tenebra. — Lasciò il fuoco e la calda cucina, riprendendo il mantello e uscendo solo per le vie, sotto la fredda acquerugiola invernale.

—  È oppresso da una maledizione — disse Gazzamarina, seguendolo con lo sguardo, un po’ intimorito.

—  Io credo che questo viaggio lo condurrà alla morte — osservò la ragazza, — e lui lo teme eppure non esita. — Alzò la testa come se vedesse, attraverso la rossa fiamma del fuoco, la rotta di una barca che avanzava sola sui mari dell’inverno. Poi per un attimo gli occhi le si riempirono di lacrime, ma lei non disse nulla.

Veccia tornò a casa il giorno seguente e si accomiatò dai notabili di Ismay, che non avrebbero voluto lasciarlo partire per mare a metà inverno, in una ricerca mortale che non lo riguardava neppure; ma per quanto lo rimproverassero, non poterono far nulla per trattenerlo. Stanco della loro insistenza, Veccia disse: — Io appartengo a voi, per discendenza e per tradizione e per il dovere che ho verso di voi. Sono il vostro mago. Ma è tempo che ricordiate che, sebbene io sia un servitore, non sono il vostro servitore. Quando sarò libero di tornare, ritornerò: fino ad allora, addio.

Allo spuntar del giorno, mentre la grigia luce scaturiva dal mare a oriente, i due giovani partirono a bordo della Vistacuta dal porto di Ismay, alzando una robusta vela bruna al vento del nord. Sul molo, Millefoglie li guardò allontanarsi, come le mogli e le sorelle dei marinai stanno sulle rive di tutto Earthsea a guardare i loro uomini che vanno per mare, e non agitano le braccia e non gridano ma restano immobili nel mantello grigio o bruno, là sulla spiaggia che rimpicciolisce e rimpicciolisce, vista dalla barca, via via che la distanza aumenta.

IL MARE APERTO

Il porto era ormai scomparso all’orizzonte e gli occhi dipinti della Vistacuta, bagnati dalle onde, guardavano avanti su mari sempre più vasti e desolati. In due giorni e due notti i viaggiatori compirono la traversata da Iffish all’isola di Soders, cento miglia di tempo pessimo e di venti contrari. Si fermarono per poco nel porto, solo il tempo sufficiente per riempire un otre d’acqua e per acquistare un telo incatramato per proteggere la loro roba dall’acqua di mare e dalla pioggia. Non se l’erano procurato prima perché comunemente un mago provvede a queste cose con incantesimi del tipo più usuale, e per la verità occorre poca magia anche per render dolce l’acqua marina e risparmiarsi il fastidio di portarsi dietro acqua dolce. Ma Ged sembrava poco disposto a usare la propria magia o a lasciare che Veccia si servisse della sua. Diceva soltanto «È meglio di no», e il suo amico non faceva domande e non discuteva. Perché, appena il vento aveva gonfiato la vela, entrambi avevano sentito un pesante presentimento, freddo come quel vento invernale. Porto, rifugio, pace, sicurezza: era tutto alle loro spalle. Se ne erano allontanati. Ora percorrevano una via in cui tutti gli eventi erano pericolosi e nessun atto era privo di significato. Sulla rotta su cui si erano imbarcati, recitare il minimo incantesimo poteva cambiare la sorte e spostare l’equilibrio del potere e del destino: perché ora si avviavano verso il centro stesso di quell’equilibrio, verso il luogo dove la luce e la tenebra s’incontrano. Coloro che viaggiano così non pronunciano inutilmente neppure una parola.