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Gordon Dickson

Il mantello e il bastone

Quando scese nella gelida, fredda alba di novembre dall’autobus affollato che aveva portato da Bologna i passeggeri della linea aerea (come succedeva spesso d’inverno, l’aeroporto di Milano era chiuso per la nebbia; e la nave-corriere, come i jet commerciali, era stata costretta ad atterrare a Bologna) Shane Everts scorse con la coda dell’occhio una piccola figura a bastoncino, incisa poco vistosamente sulla base d’un lampione.

Non osò guardarla direttamente, ma quell’occhiata di straforo bastò. Fermò un tassì che arrivava e diede l’indirizzo del Quartier Generale della Guardia Aalaag della città.

— È freddo, a Milano — disse il tassista, mentre guidava per le vie ancora semideserte.

Shane gli rispose con un monosillabo dall’accento svizzero, per dirsi d’accordo. In novembre, a Milano faceva davvero freddo. Un freddo crudo. Più a sud, a Firenze il clima era ancora dolce, con il cielo azzurro e il sole. Probabilmente il tassista voleva attaccare discorso per scoprire come mai il passeggero umano voleva andare al quartier generale alieno, ma era pericoloso. Gli umani normali non amavano quelli che lavoravano per gli aalaag. Se non dico niente, pensò Shane, può insospettirsi. No, pensandoci meglio, sentendo il mio accento svizzero crederà che abbia un parente nei guai qui in città, e che non me la senta di chiacchierare.

Il tassista parlò dell’estate appena passata. Rimpiangeva i bei tempi, quando arrivavano i turisti.

Shane rispose brevemente a entrambe le affermazioni. Poi vi fu silenzio, nel tassi, a parte i suoni del motore. Shane appoggiò il bastone più comodamente contro la gamba destra e la spalla sinistra, per sistemarlo meglio nel piccolo spazio. Si allisciò la veste marrone sulle ginocchia. L’immagine della figura che aveva veduto gli aleggiava ancora nella mente. Era identica a quella che lui stesso aveva tracciato la prima volta su un muro, sotto i tre ganci con il morto appeso, ad Aalborg, in Danimarca, più di sei mesi prima:

Ma non era stato lui a tracciare quella sul lampione. E non aveva tracciato nessuna delle altre figure che aveva scorto qua e là nel mondo durante gli ultimi otto mesi. Un momento di ribellione emotiva l’aveva spinto a creare un’immagine che adesso si stava apparentemente diffondendo e moltiplicando per riempire le sue ore di veglia e quelle del sonno con incubi ricorrenti. Non serviva a nulla dirsi che nessuno avrebbe potuto collegarlo con il primo graffito. Non serviva a nulla sapere che in tutti quegli otto mesi era stato un servitore irreprensibile di Lyt Ahn.

Nessuno di quei due fatti poteva essere del minimo aiuto se per qualche ragione Lyt Ahn, o qualche altro aalaag, avesse creduto che c’era qualche motivo per collegarlo ad una delle figure scarabocchiate.

Quale impulso insano ed egocentrico l’aveva spinto a usare il suo solito travestimento della setta dei pellegrini come simbolo di opposizione agli alieni? Qualunque altra figura sarebbe servita egualmente allo scopo. Ma allora aveva bevuto l’acquavite danese distillata clandestinamente; e con il ricordo dei colossi aalaag padre e figlio che, sulla piazza, assistevano alla morte dell’uomo che avevano condannato e giustiziato, e soprattutto con il ricordo della loro conversazione che lui, unico tra tutti gli umani presenti, aveva potuto comprendere, per un breve istante la ragione era fuggita dalla sua mente.

Dunque ora il suo simbolo era stato ripreso ed era diventato il simbolo di quello che, ovviamente, era un movimento clandestino umano già esistente che si opponeva agli aalaag, un movimento clandestino che non aveva mai sospettato. Il fatto stesso che esisteva preannunciava tragedie sanguinose per ogni umano tanto pazzo da essere collegato ad esso in qualche modo. Secondo i loro criteri, gli aalaag erano inflessibilmente giusti. Ma consideravano gli umani come bestiame, e un allevatore di bestiame non pensava al «giusto» nei confronti di un toro ammalato o potenzialmente pericoloso che era diventato un problema per la fattoria…

— Eccolo! — disse il tassista.

Shane guardò e vide il quartier generale alieno. Uno scudo d’energia riflettente lo copriva come un rivestimento di mercurio. Era impossibile capire che tipo di struttura fosse stato in origine: poteva essere stato qualunque cosa, da un palazzo d’ufficio a un museo. Lyt Ahn, Primo Capitano della Terra, nel suo quartier generale affacciato sulle cascate di St. Anthony in quello che un tempo era stato il cuore di Minneapolis, disprezzava quella dimostrazione così ovvia di potenza difensiva. I grigi muri di cemento della sua grande fortezza su Nicollet Island non avevano nulla che li proteggesse, eccettuate le armi portatili all’interno; ma sarebbero bastate quelle per spianare l’area metropolitana circostante nel volgere di poche ore. Shane pagò il tassista, scese e varcò l’ingresso principale del quartier generale milanese.

Le Guardie Ordinarie all’interno della grande porta a due battenti e quelle sedute al banco erano tutti umani. Quasi tutti giovani, come Shane, ma più grandi e grossi; perché anche l’umano più imponente appariva piccolo e fragile agli aalaag, che erano alti due metri e mezzo. Le guardie portavano le solite uniformi nere, linde ma scialbe, della polizia asservita. In mezzo a loro, benché si sentisse piccolo con il suo metro e ottanta di statura, Shane provò una bizzarra sensazione di conforto al pensiero d’essere tra quelle mura, circondato da quegli umani. Come lui, mangiavano alle tavole degli alieni; ed erano tenuti a difenderlo dagli umani non asserviti che l’avessero minacciato. Sotto il tetto dei padroni che gli ispiravano la nausea, era fisicamente protetto, sicuro.

Si fermò al banco, tolse la sua chiave dalla borsa di cuoio che portava alla cintura, senza estrarre i documenti. Il funzionario umano di turno prese la chiave e l’esaminò. Era di metallo, un metallo che nessun terrestre comune poteva possedere, e sul manico quadrato era impresso il Marchio di Lyt Ahn.

— Signore — disse l’ufficiale in italiano, vedendo il Marchio. Era diventato di colpo gentile. — Posso esserle d’aiuto?

— Mi fermo qui temporaneamente — rispose Shane in arabo, perché l’accento dell’ufficiale rispecchiava l’influsso delle consonanti gutturali di quella lingua. — Sono io che consegno i messaggi per conto del Primo Capitano della Terra, Lyt Ahn. Ne ho alcuni da consegnare al Comandante di questo Quartier Generale.

— La sua lingua è molto esperta — disse l’ufficiale in arabo, girando il registro di servizio e porgendo una penna.

— Sì — disse Shane, e firmò.

— Il Comandante, qui — disse l’ufficiale, — è Laa Ehon, Capitano del sesto rango. Accetta i suoi messaggi.

Si voltò e chiamò con un cenno una delle guardie.

— All’anticamera di Laa Ehon. Porta messaggi per il Comandante.

La guardia salutò militarmente e condusse via Shane. Salirono per diverse rampe di scale, accanto a un ascensore che Shane non avrebbe usato neppure se non ci fosse stato con lui la guardia. Arrivarono in un corridoio e in fondo, dietro un’altra porta a due battenti scolpiti, entrarono nell’anticamera dell’ufficio privato del Comandante aalaag di Milano.

La guardia salutò di nuovo e uscì. Non c’erano altri umani nella stanza. Un aalaag del ventiduesimo rango sedeva a una scrivania nell’angolo in fondo, e leggeva rapporti sui fogli di plastica che conservavano strati multipli di impressioni. Nella parete alla sinistra di Shane una finestra, con la leggera colorazione agli angoli che la rivelava come una versione aalaag dei finti specchi. La finestra mostrava un ufficio adiacente, dove c’erano panche per gli umani. Ma l’ufficio era vuoto: c’era soltanto una giovane donna bionda, che indossava un abito azzurro lungo e ampio, annodato intorno alla vita sottile.

Per Shane non c’era posto per sedersi. Ma dato che era abituato a frequentare Lyt Ahn e altri aalaag di rango elevato, s’era abituato anche ad attendere in piedi per ore.