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«Embè?»

«Non li ha voluti ricevere. Non c’è stato verso. Ha detto che non voli vidiri a nisciuno. Hanno parlato col picciotto che bada alle pecore e macari lui ha detto che Ciccino gli dà ordini attraverso la finestra mezza chiusa.»

«Mischino!» intervenne Pasqualino. «Mi fa una pena!»

«Non riesce a elaborare il lutto» fece il professore Lumia che parlava sempre come un libro stampato.

«E ti credo!» disse il geometra trovandosi una volta tanto d’accordo col professore. «Marta è stata l’unica pirsona al mondo alla quale Ciccino ha voluto tanticchia di bene!»

La signora Matranga era fimmina risoluta e di parola imperativa. Suo figlio Marcuzzo, dodicino, assittato allato a lei, era vagnato di sudore.

«Marescià, Marcuzzo, questo figlio mè, è uno sdilinquente tali e quali a sò patre! Ogni matina inveci di andari alla scola, sinni va a spasso campagne campagne e non sente né prighere né vastonate! Io non ce la fazzo più, Marescià! Mi tacisse la carità, ci parlasse vossia.»

Rientrava nei suoi compiti istituzionali rimproverare uno scolaro che non aviva gana di studiare? Forse, anzi certamente, no. Ma se si rifiutava, cosa avrebbe detto di lui in paìsi la signora Matranga a tutte le clienti del suo negozio di frutta e verdura?

Parlò a Marcuzzo, sempre più atterrito e sudatizzo, per una decina di minuti. Alla fine il dodicino solennemente giurò di non fare più assenze e la signora Matranga s’addichiarò soddisfatta.

Smesso l’abito di sostituto pater familias gli toccò d’indossare subito dopo quello di giudice di pace per una facenna di confini tra la terra di Gaspano Mongitore e quella di Girlanno Dibetta.

Mettere d’accordo Mongitore e Dibetta, contadini di testa più dura delle pietre che costituivano l’ottanta per cento delle loro terre, fu cosa longa e laboriosa che però si concluse felicemente sia pure nella tarda matinata.

Verso le quattro del doppopranzo, del tutto inatteso, si vitti spuntare in ufficio a don Michele Spampinato, da solo tre anni parroco del paìsi.

«Maresciallo, vorrei premettere che la mia è una visita, come dire, privata.»

«Si accomodi» disse il maresciallo andando a chiudere la porta dell’ufficio. «Mi dica.»

«Lei sa che circa un mesetto fa è deceduta la signora Marta Barbaro?»

«Sì.»

«Sa anche che da quel giorno Ciccino, il vedovo, non vuole più vedere nessuno? Nemmeno la sorella che pure è andata a trovarlo almeno tre volte senza essere mai riuscita a entrare in casa?»

«L’ho inteso dire.»

«Bene. Stando così le cose ho ritenuto mio dovere, stamattina presto, dopo la prima Messa, di andare da lui per portargli una parola di conforto. Ci ho messo più di un’ora, in parte col motorino e in parte a piedi, per raggiungere la casa. C’ero stato altre volte per la Benedizione pasquale. È stato un viaggio inutile.»

«Non le ha aperto?»

Il parrino si catamminò tanticchia a disagio sulla seggia.

«Si ricorda com’è la casa? È a un piano, in mezzo a un orto protetto da una palizzata fatta di rami e con al centro un cancelletto. Io mi sono fermato proprio lì e ho chiamato. Nessuno ha risposto, ma io ho continuato a chiamare. Finalmente, quando non avevo più voce, la finestra del piano superiore s’è aperta, ma Ciccino non si è affacciato. Sempre fermo al cancelletto, gli ho detto che volevo parlargli. Per tutta risposta lui mi ha mandato via in malo modo.»

«Cosa intende per malo modo?»

Il maresciallo aviva avvertito una certa reticenza nelle parole del parrino e la cosa non gli era piaciuta.

Don Michele, sempre più a disagio, s’asciucò la fronte col fazzoletto.

«Ecco, maresciallo, ho fatto una premessa… se ne ricorda, vero?… la mia è una visita privata… Non vorrei portare danno a un povirazzo che…»

«Don Michele, ho capito benissimo quello che lei vuole. E per quanto mi è possibile… Però parli.»

«Ha sparato.»

«A lei?» spiò strammato il maresciallo.

«A me no. Ha imbracciato un fucile da caccia e ha sparato un colpo. Ma lei capisce, Ciccino non ci sta più tanto con la testa, è armato, può rappresentare un pericolo per sé e per gli altri.»

«Certo, certo» fece ancora imparpagliato il maresciallo.

A quali grado di disperazione era arrivato Ciccino, accanosciuto da tutti come omo non violento, per minacciare un parrino?

Gli venne un dubbio.

«Una curiosità, don Michele. Quando andò da Barbaro, aveva la tonaca?»

«No, non ero vestito come mi vede oggi. Per comodità, mi ero messo i jeans e maglione leggero a girocollo. Uno che non lo sa, come fa a capire che si trova davanti a un parrino?»

«Avevate avuto modo di conoscervi prima?»

«L’ho intravisto in chiesa solo il giorno del funerale. Le volte che sono stato a casa sua per la Benedizione pasquale ho trovato solo la moglie.»

«Lei, a Barbaro, gli disse chi era?»

Il parrino ci pinsò tanticchia.

«Non credo di averne avuto il tempo.»

«Un’ultima cosa. È sicuro che ha voluto sparare in alto?»

«Sicurissimo. Voleva solo allontanarmi spavenandomi.»

Appena il parrino niscì, il maresciallo chiamò l’appuntato Colamonaci e gli spiò d’accertarsi se Barbaro Francesco, che tiniva in casa un fucile da caccia, era in regola con la liggi.

Abbastarono una decina scarsa di minuti che l’appuntato tornò con la risposta: Barbaro aviva le carte in regola. Aggiunse, a titolo d’informazione, che a lui, Colamonaci, Barbaro Francesco arrisultava, per voce popolare, pirsona onesta e degna di considerazione, macari se di carattere bastevolmente difficile.

E detto ciò, restò fermo davanti alla scrivania del suo superiore.

Si era evidentemente incuriosito per la domanda d’informazione sul permesso di caccia e sperava che il maresciallo gliene spiegasse la ragione.

«Grazie, puoi andare» gli disse invece Brancato.

Aveva fatto promissa al parrino di trattare la facenna in modo discreto e perciò non poteva metterne a parte Colamonaci, non perché l’appuntato fosse sparlittero, tutt’altro, ma meno sono le pirsone a conoscenza di una data cosa e minore è il rischio che quella data cosa si sappia in giro.

Che fare, ora? Andare subito da Ciccino Barbaro e farsi consegnare il fucile?

Taliò il ralogio, si erano fatte le cinco passate.

Potiva rimandare la visita alla matina appresso?

Vediamo come stanno le cose, si disse. Pericoloso per sé e per gli altri, aviva definito don Michele a Ciccino. Ma se uno ha deciso di essiri pericoloso per sé – continuò a ragionare il maresciallo – non è nicissario che sia in possesso di un’arma qualsiasi, da foco o da taglio, gli abbasta uno sdirrupo dintra al quale buttarsi o tanticchia di vileno per i sorci. Quando sei arrivato al punto di volerti fare male, ogni cosa è bona a farti male, persino la più semplici espressione della natura, un fungo vilininoso, una bacca maligna. La massima fortuna che un omo può aviri nella vita è quella di non arrivare mai a un punto dì disperazione dal quale non puoi tornare narrè.

In quanto all’essiri pericolosi per gli altri, certo che il possesso di un’arma può aviri un peso considerevole, può rappresentare una tentazione irresistibile.

Ma nel caso specifico Ciccino, a stare alle parole del parrino, imbracciato il fucile aviva esploso un solo colpo in aria. Certo, non si trattava di tentato omicidio, se avesse voluto colpire a don Michele, avrebbe potuto farlo facilmente, il parrino s’attrovava a pochi metri, completamente esposto.

Una grave intimidazione era, questo sì. Che si sarebbe potuta ripetere con qualcun altro che, ignaro, si spingeva fino alla casa di Ciccino. Ma chi poteva essere questo “qualcun altro”? Ciccino non aviva amici, l’unico col quale ogni tanto parlava era il cognato e perciò, concluse il maresciallo, non c’era pericolo che per quella sera il vidovo dispirato poteva ripetere il gesto sconsiderato.