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Sparò un colpo, un secondo, un terzo.

Dal pozzo venne una raffica rabbiosa. L’ultima, perché Ciccino con due balzi era arrivato alle spalle dell’omo, gli aviva piantato alla nuca il fucile da caccia, gli stava dicendo qualche cosa che non si capì.

L’omo si susì, gettò il mitra, aspittò con le mani alzate che arrivasse di corsa il maresciallo per ammanettarlo. Ma intanto Ciccino, senza manco dire una parola, era rientrato in casa e aviva nuovamente inserrato la porta.

L’omo catturato arrisultò essere un pericoloso latitante che nessuno, da cinque anni, arrinisciva a pigliare. Non era di quelle parti, evidentemente era staro sorpreso in marcia di trasferimento.

Nei tre giorni che vennero appresso, il maresciallo Brancato ebbe continuamente a che fare con due grossi problemi. Il primo era quello di non dare conto ai giornalisti che si erano precipitati a Belcolle per intervistarlo, e che erano peggio delle mosche cavalline, il secondo era di tenere fora dalla partita a Ciccino, «lo sconosciuto pastore» come avivano scritto su un giornale «che aveva coraggiosamente collaborato alla cattura».

Il maresciallo si arrisolse a parlarne col capitano Ventura, che era omo che capiva le situazioni, e gli spiegò chi era Ciccino e quale momento difficile stava attraversando. Se si vidiva davanti a omini in divisa, capace che reagiva in malo modo.

La parlata s’arrivelò la mossa giusta.

A farla breve, passati quattro giorni, non c’era un cane che s’arricordasse più di tutta la facenna. Fatta eccezione dell’appuntato Colamonaci che una sera gli sparò una domanda a tradimento.

«Mi levi una curiosità, maresciallo, ma quel fucile da caccia che Ciccino puntò alla nuca del latitante era quello stesso di cui lei mi domandò se…»

«Sì, lo stesso» fece brusco il maresciallo taliandolo malamente.

E le curiosità di Colamonaci finirono lì.

Finalmente una matina che alla stazione tutto pariva essiri tranquillo il maresciallo ripigliò la jeep e si diresse verso la casa di Ciccino. Ma stavolta la giornata minazzava pioggia, nuvole nivure carriche d’acqua arrancavano verso il paìsi.

Macari stavolta il maresciallo si fermò al belvedere durante l’acchianata a piedi e si domandò se questo paesaggio scuroso prossimo alla tempesta non era più bello di quello aperto e sereno dei giorni di sole.

Quando finalmente arrivò al cancelletto chiuso si fermò e chiamò a gran voce: Ciccino! Posso trasire? Il maresciallo Brancato sono! ».

La finestra del piano superiore era aperta, le imposte sbatacchiavano per il vento friddo.

Non s’affacciò nessuno.

«Ciccino! Venni per ringraziarti. Un minuto solo e me ne vado.»

Manco stavolta ci fu risposta.

Era in casa o no?

Comunque, sarebbe stato un gesto sbagliato aprire il cancelletto e andare a tuppiare alla porta. Doviva essere Ciccino, di sua volontà, ad accoglierlo.

Improvvisa la pioggia principiò a cadiri. Stizze pesanti, larghe, rade, di quelle che preludono a un acquazzone violento, da assammarare chi è allo scoperto.

«Ciccino! Sta piovendo! Fammi trasire!»

La porta si raprì, misericordiosa. L il maresciallo la taliò raprirsi con gratitudine, come l’altra volta che pioveva macari, solo che piovevano proiettili.

Ciccino non parlò, con la mano gli fece cenno di venire avanti, di viniri in casa. Il maresciallo trasì e Ciccino richiuse la porta.

La cammara era quasi allo scuro, scarsa era la luminosità che trasiva dall’unica finestra. Era una cammara di mangiare, una parete occupata dalla cucina, a mano manca una scala di legno portava al piano di sopra, dove c’era la cammara di dormiri. La stanza parse al maresciallo abbastanza pulita e ordinata. Ciccino, a quanto si arrinisciva a vidiri di lui, era invece assai trascurato, la varba longa, i capelli macari, il vistito stazzonato.

«Posso assittarmi?»

Ciccino rispose indicando una seggia di paglia.

Il maresciallo s’accomodò, Ciccino pigliò un’altra seggia e s’assittò davanti a lui. Stettero accussì per un pezzo, in silenzio. Poi Ciccino si susì, andò alla cridenza che c’era in un angolo, tornò con due bicchieri e un fiasco di vino, riempì i bicchieri, ne porse uno al maresciallo. Prima di portarli alla bocca, li isarono taliandosi negli occhi. Finirono di bere con comodo, sempre senza scangiarsi una parola.

Fora, intanto, diluviava.

Il maresciallo capì che attoccava a lui parlare per primo, se voliva capirci qualcosa del comportamento di Ciccino dopo la morte della mogliere. Abbisognava approfittare del momento che pareva bono, ma doviva pigliarla alla larga e quindi addentrarsi con estrema quatela.

«Oltre che a ringraziarti, sono venuto a farti, macari se in ritardo, le condoglianze. So che hai sofferto, e continui a soffrire, come un cane. Ma sei un omo di sperienza e perciò devi farti una ragione.»

«Pirchì devo farmi una ragione?»

La domanda strammò il maresciallo. Era molto semplice e lineare, la domanda, e appunto per questo di difficilissima risposta. Soprattutto se fatta da uno come Ciccino che non aviva figli e non aviva avuto altri affetti al di fuori di quello per la mogliere scomparsa.

La risposta però gli acchianò alle labbra spontanea, quasi non suggerita dal cervello.

«Perché accussì è la vita. Pinsavi che Marta campava in eterno? Lo sai che appena nasci, ti cominci a portare sulle spalle la tua morte.»

«Ma io non parlavo della morte.»

Matre santa, ma che voliva dire quell’omo? Il maresciallo aviva necessità di taliarlo nell’occhi, ma nella cammara c’era troppo scuro.

Il temporale non accennava a calmarsi.

Senza spiare permesso, si susì, addrumò la luce, tornò ad assittarsi. Ciccino non si era cataminato.

Ora il maresciallo lo potiva esaminare bene. Stava immobile sulla seggia, le mano posate supra le ginocchia, la faccia che pariva tagliata nel legno. Tiniva l’occhi stritti a fessura, pirchì accussì circava d’impedire alle lagrime di nesciri fora. Era la statua vivente di un dolore insopportabile che si irradiava torno torno fino a formare una specie di corazza invisibile ma impenetrabile. E fu allora che il maresciallo ebbe la certezza che per tutti i giorni che erano seguiti alla morte di Marta, Ciccino aviva passato gran parte delle giornate accussì, immobile sopra una seggia, sia che fora ci fosse luce sia che ci fosse scuro, a pinsare e a ripinsare un’idea fissa, una sola, che non riguardava la morte.

Ma allora che riguardava?

Si fece pirsuaso che qualsiasi parola sarebbe stata sbagliata. Per vincere la sottile angoscia che l’aviva pigliato, il maresciallo si versò due dita di vino, lo bevve di colpo.

Davanti a lui, con un movimento lentissimo, Ciccino accennò a susirisi. Rigido, pariva un pupo di legno che per miracolo pigliava vita. Quanno fu addritta, si mosse ancora incerto verso la scala che portava al piano di sopra, l’acchianò con fatica gradino appresso gradino, scomparse.

Il maresciallo lo sentì caminare tanticchia, appresso Ciccino ricomparse, s’assittò nuovamente al posto di prima, posò sul tavolo quello che era andato a pigliare. Un medaglione sicuramente dell’Ottocento, di buona fattura macari se non prezioso, di un cinque centimetri massimo di diametro, che si portava al collo con un nastro di velluto nero.

Ciccino lo fece scivolare tanticchia verso il maresciallo che potè taliarlo più da vicino. Sul tondo smaltato era stata pittata una Crocefissione, i colori si mantenevano ancora brillanti.

«Bello» fece il maresciallo.

«L’accattai a Marta tri misi dopo che ci eravamo maritati. Lei se lo mise al collo, lo tiniva sutta tutti i vistiti, sulla pelle, e non se lo livò più.»

Allungò una mano, strinse nel pugno il medaglione.