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— Gli scienziati, gli Specialisti — disse Selver. Meditò su quelle parole.

— Voi decidete le questioni tutti quanti insieme, la vostra gente — disse, anche questa volta a metà tra un’affermazione e una domanda.

— Che cosa intendi dire? — Il comandante sembrava guardingo.

— Be’, voi dite che nessuno di voi deve tagliare gli alberi di Athshe: e ciascuno di voi si ferma. Eppure voi abitate in molti luoghi. Ora, se una donna-capo di Karach desse un ordine, esso non verrebbe obbedito dalla gente di un altro villaggio, e certamente non lo verrebbe da tutta la gente del mondo immediatamente…

— No, perché voi non avete un unico governo che comandi a tutti. Ma noi sì… adesso… e ti assicuro che i suoi ordini vengono obbediti. Da tutti noi, immediatamente. Ma, in effetti, mi pare di capire, dalla storia che mi è stata riferita dai coloni di qui, che quando tu hai dato un ordine, Selver, esso è stato obbedito da tutti, su ogni isola, immediatamente. Come hai potuto farlo?

— In quel momento ero un dio — disse Selver, senza alcuna particolare espressione.

Dopo che il comandante lo ebbe lasciato, l’umano lungo e bianco venne bighellonando fino a lui e gli chiese il permesso di sedere all’ombra dell’albero. Aveva tatto, quell’umano, ed era estremamente acuto. Selver si trovava a disagio con lui.

Così come Lyubov, questo umano si sarebbe comportato in modo gentile; avrebbe capito, eppure a sua volta sarebbe stato profondamente incomprensibile. Infatti anche il più gentile di loro era altrettanto fuori contatto, altrettanto irraggiungibile, quanto il più crudele. Ecco perché la presenza di Lyubov nella sua mente restava dolorosa per lui, mentre invece i sogni in cui vedeva e toccava la sua defunta moglie Thele erano preziosi e pieni di pace.

— Quando sono stato qui la volta scorsa — disse Lepennon — ho incontrato quell’uomo, Raj Lyubov. Ho avuto pochissime occasioni di parlare con lui, ma ricordo quanto mi ha detto; e da allora ho avuto il tempo di leggere alcuni dei suoi studi sulla vostra gente. Il suo lavoro, come tu dici.

"In gran parte, è per merito di quel lavoro che Athshe è adesso libera dalla Colonia Terrestre. Questa liberazione era diventata lo scopo dell’intera vita di Lyubov, penso. Tu, essendo suo amico, vorrai fare in modo che la sua morte non gli impedisca di arrivare al suo scopo, di finire il suo viaggio."

Selver rimase immobile. L’inquietudine si trasformò in paura nella sua mente. Questo umano parlava come un Grande Sognatore.

Non diede alcuna risposta.

— Vuoi dirmi una cosa, Selver? Se la domanda non ti offende. Non ci saranno altre domande dopo di questa… Ci sono state le uccisioni: al Campo Smith, poi in questo luogo, Eshsen, e infine al Campo New Java, dove Davidson guidava il gruppo ribelle. Questo è stato tutto. Più nessuna uccisione dopo di allora… È vero, ciò? Non ci sono più state uccisioni?

— Io non ho ucciso Davidson.

— Questo non importa — disse Lepennon, fraintendendo; Selver aveva inteso dire che Davidson non era morto, ma Lepennon aveva capito che qualcun altro avesse ucciso Davidson.

Sollevato nel vedere che l’umano poteva sbagliare, Selver non lo corresse.

— Non ci sono state altre uccisioni, dunque?

— Nessuna. Loro possono dirtelo — disse Selver, indicando il colonnello e Gosse.

— Tra il tuo stesso popolo, intendo. Athshiani che uccidono Athshiani.

Selver tacque.

Alzò gli occhi su Lepennon, sulla sua strana faccia, bianca come lo Spirito del Frassino, che cambia nell’incontrare il tuo sguardo.

— A volte arriva un dio — disse Selver. — Porta un nuovo modo di fare una cosa, o una nuova cosa da farsi. Un nuovo tipo di canzone, o un nuovo tipo di morte. La porta facendole attraversare il ponte che c’è tra il tempo del sogno e quello del mondo.

"E, una volta che l’abbia fatto, è fatto. Non puoi prendere le cose che esistono nel mondo e cercare di ricacciarle nel sogno, di trattenerle all’interno del sogno mediante pareti e pretese. Questa è pazzia. Ciò che è, è. Non vale pretendere, adesso, che noi non sappiamo ucciderci l’un l’altro."

Lepennon posò la sua lunga mano su quella di Selver, in modo così rapido e gentile che Selver accettò il contatto come se quella mano non appartenesse a uno straniero. L’ombra verde e dorata delle foglie di frassino guizzò su quelle mani.

— Ma voi non dovrete pretendere di avere delle ragioni per uccidervi l’un l’altro. L’omicidio non ha mai ragioni — disse Lepennon, e la sua faccia era alquanto ansiosa e triste come quella di Lyubov. — Dobbiamo andare. Tra due giorni partiremo. Tutti. Per sempre. E allora le foreste di Athshe ritorneranno come erano prima.

Lyubov uscì dalle ombre della mente di Selver e disse: — Io sarò qui.

— Lyubov sarà qui — disse Selver. — E Davidson sarà qui. Tutt’e due. Forse, dopo che io sarò morto, la gente ritornerà com’era prima che io nascessi, e prima che giungeste voi. Ma io ne dubito.

Commento dell’autore

Scrivere è di solito per me un lavoro faticoso, ma piacevole; invece questa storia è risultata facile a scriversi, ma sgradevole. Non mi ha lasciato scelta. Scriverla è stato un po’ come stenografare sotto dettatura di un capufficio con l’ulcera. Le cose di cui avrei voluto scrivere erano la foresta e il sogno; cioè intendevo descrivere dall’interno una certa ecologia, e giocare con alcune idee di Hadfield e Dement sulla funzione del sonno onirico e gli usi del sogno. Ma il capufficio voleva parlare della distruzione degli equilibri ecologici e del rifiuto degli equilibri affettivi. Non voleva affatto giocare. Voleva dare una morale. Io non amo molto le storie moraleggianti, poiché spesso mancano di carità. Spero che a questa non manchi. Posso solamente dire - avendone dovuto fare l’esperienza - che è ancor più doloroso essere Don Davidson che essere Raj Lyubov.

FINE