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Davidson fece un sorriso a una piccola eurafricana pettoruta che aveva più capelli che testa; non ne ricavò alcun sorriso in risposta, bensì un ancheggiare, nell’allontanarsi da lui, che diceva a tutte lettere: seguimi, seguimi, seguimi.

Ma non la seguì. Era ancora presto. Si recò al Quartier Generale della Centrale: pietra a presa rapida e plastipiastre, Modello Standard, quaranta uffici, dieci refrigeratori d’acqua da bere e l’arsenale nel sotterraneo, e si presentò al Comando dell’Amministrazione Coloniale Centrale di New Tahiti.

Venne presentato a un paio di membri dell’equipaggio della lancia, inoltrò una richiesta per un nuovo scortecciatore semiautomatico alla Foresteria, e combinò di vedersi al Bar Luau alle due del pomeriggio con il suo vecchio amico Juju Sereng.

Si recò al bar un’ora prima, per mettersi in corpo un po’ di cibo solido prima che avessero inizio le bevute. Laggiù trovò Lyubov, seduto insieme con un paio di individui nell’uniforme della Flotta: qualche razza indeterminata di specialisti, scesi con la lancia della Shackleton.

Davidson non teneva in troppa considerazione la Marina (un branco di svitati che si divertiva a saltare da una stella all’altra e lasciava all’Esercito tutta la parte fangosa, polverosa, pericolosa del lavoro sul campo), ma i gradi sono gradi, e poi era divertente lo spettacolo di Lyubov che se la faceva da amiconi con alcune persone in uniforme. Lyubov stava parlando, e gesticolava tutto convinto, come faceva sempre.

Mentre gli passava accanto, Davidson gli diede una pacca sulla spalla e gli fece: — Ehi, Raj, vecchio furfante, come te la passi?

Proseguì senza stare ad aspettare l’occhiataccia dell’altro, ma gli sarebbe piaciuto vederla. Probabilmente quel Lyubov era effeminato come tanti altri intellettuali, e gli dava fastidio la virilità di Davidson. Comunque, Davidson non intendeva perder tempo a nutrire ostilità verso Lyubov: quell’uomo non ne valeva la fatica.

Al Luau si poteva avere una bistecca di cacciagione, prima scelta. Che cosa avrebbero detto sulla vecchia Terra se avessero visto un uomo mangiarsi un chilo di carne in un pasto solo? Poveri marpioni, con le loro bistecche di soia! E poi arrivò Juju con… così come Davidson aveva previsto con certezza… la crema delle nuove Ragazze di Colonia: due succose beltà, non certo appartenenti alla categoria delle Spose, ma al Personale Ricreativo. Oh, a volte la vecchia Amministrazione Coloniale raggiungeva il suo scopo! Fu un pomeriggio lungo e rovente.

Ritornando in volo al campo, attraversò lo Stretto di Smith allo stesso livello del sole posato in cima a un vastissimo letto dorato di foschia sovrastante il mare. Cantava, mentre pilotava l’elicottero senza alcuna preoccupazione. La Terra di Smith giunse in vista, velata dai vapori, e c’era del fumo al disopra del campo, una chiazza nerastra, come se dell’olio lubrificante fosse finito nell’inceneritore delle immondizie.

In mezzo a quel fumo non si potevano neppure distinguere gli edifici. Solamente quando cominciò a scendere sul campo d’atterraggio, scorse il jet segnato dal fuoco, gli elicotteri fracassati, l’hangar incendiato.

Fece riprendere quota all’elicòttero e ritornò in volo sul campo, a un’altitudine talmente scarsa da rischiare di colpire l’alto cono dell’inceneritore, che era l’unica cosa che rimanesse ancora in piedi. Tutto il resto se n’era andato: segheria, fornace, deposito della legna segata, Quartier Generale, baracche, caserma, recinto dei creechie, tutto. Gusci vuoti e rottami anneriti, ancora fumanti.

Ma non si era trattato di un incendio della foresta. La foresta era ancora in piedi, e verdeggiava intatta, a fianco a fianco con le rovine. Davidson virò di nuovo sul campo d’atterraggio, toccò terra, accese le luci per cercare la moto, ma anch’essa era un rottame annerito, in mezzo alle rovine puzzolenti e fumanti dell’hangar e delle macchine.

Si mise a correre lungo il sentiero che scendeva verso l’accampamento. Mentre passava davanti a quella che era stata la baracca della radio, riacquistò d’improvviso il buon senso. Senza esitare nemmeno per una falcata, cambiò direzione, si allontanò dal sentiero battuto, passò dietro la baracca sventrata. E laggiù si fermò. Tese le orecchie.

Non c’era nessuno. Tutto taceva. I fuochi erano già spenti da tempo; solamente le grosse pile di assi lavorate fumavano ancora, mostrando un cuore rosso intenso al di sotto delle ceneri e dei frammenti bruciacchiati. Valevano più dell’oro, quegli oblunghi mucchietti di cenere, prima… Ma nessuna spirale di fumo si levava ormai dagli scheletri anneriti della caserma e delle baracche; e in mezzo alle ceneri c’erano delle ossa.

Il cervello di Davidson era super-chiaro e in piena attività, a questo punto, mentre si teneva accovacciato dietro la baracca della radio.

C’erano due possibilità. Uno: un attacco da un altro campo. Qualche ufficiale di King o di New Java dava i numeri e stava cercando di fare un coup de planète.

Due: un attacco dall’esterno del pianeta. Rivide la torre dorata, ai moli spaziali della Centrale. Ma se la Shackleton era passata alla pirateria, perché cominciare con la cancellazione di un piccolo campo, invece di impadronirsi di Centralville?

No, doveva trattarsi di un’invasione, di qualche alieno. Qualche razza sconosciuta, o forse i Cetiani o gli Hainiti avevano deciso di assalire le colonie terrestri. Lui non si era mai fidato di quei maledetti umanoidi doppiogiochisti.

Il colpo doveva essere stato effettuato con una bomba incendiaria. La forza d’invasione, appoggiata da jet, vagoni volanti, bombe nucleari, poteva essere nascosta su un’isola, su un atollo, in qualsiasi punto del quarto di sfera sudovest. Avrebbe fatto meglio a ritornare al suo elicottero per trasmettere l’allarme, poi cercare di darsi un’occhiata intorno, in perlustrazione, in modo da riferire al Quartier Generale la propria valutazione della situazione reale. E stava rimettendosi in piedi quando udì le voci.

Non voci umane. Acute, leggere, bla-bla-bla. Alieni.

Chino sulle mani e sulle ginocchia dietro il tetto di plastica della baracca, che ora giaceva sul terreno, deformato dal calore fino ad assumere l’aspetto di un’ala di pipistrello, Davidson s’irrigidì e rimase in ascolto.

Quattro creechie si avvicinarono a pochi passi da lui, sul sentiero. Erano creechie selvatici, completamente nudi a eccezione di un’ampia cintura di cuoio che recava coltelli e piccoli tascapani. Nessuno aveva i calzoncini e il collare di cuoio che venivano assegnati ai creechie addomesticati. Probabilmente, i Volontari chiusi nel recinto erano stati ridotti in cenere insieme con gli umani.

Si fermarono poco più avanti del suo nascondiglio, continuando a parlarsi col loro lento bla-bla-bla, e Davidson trattenne il respiro. Non voleva farsi scorgere. Chissà che diavolo ci facevano, laggiù, dei creechie? Non potevano essere altro che spie o esploratori del nemico.

Uno dei creechie indicò in direzione sud, mentre parlava, e si voltò, cosicché Davidson poté vederlo in faccia. E riconoscerlo.

Tutti i creechie erano uguali tra loro, ma questo era differente. Davidson aveva vergato la propria firma su tutta quella faccia, meno di un anno prima. Era il creechie che era impazzito e che lo aveva assalito giù alla Centrale, il creechie omicida, il beniamino di Lyubov. E che diavolo ci faceva, lì al campo?

La mente di Davidson guizzò, ticchettò; con le reazioni scattanti come sempre, si alzò in piedi, improvviso, alto, tranquillo, arma alla mano.

— Voi creechie — disse. — Fermi. Restate immobili. Giù le braccia. Niente mosse.