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R. «E chi dice che io gestisco una bisca?»

D. «Nessuno, signor Carlatti. Si limiti a rispondere alle mie domande.»

R. «È una sporca montatura. Lo dimostri. Non sono qui in veste di imputato… Giudice Newbold: Il teste si astenga da commenti gratuiti e si limiti a rispondere alle domande.»

D. «Nella saletta posteriore del suo cosidetto night-club esistono una roulette e altri tavoli da gioco?»

R. «E io dovrei rispondere a una sporca domanda come questa? È un insulto, giudice. Non ho intenzione di stare qui a farmi insultare…»

Giudice Newbold: «Ancora un commento come questo e…»

Giudice Martin: «Mi sembra, Vostro Onore che questo interrogatorio sia improprio. Il problema se il teste gestisce una bisca o no non rientra nel caso in esame.

Giudice Newbold: «Respinto!»

Giudice Martin: «Eccezione!»

Bradford: «Se Jim Haight le deve dei soldi perduti ai suoi tavoli da gioco, signor Carletti, lei è costretto a negarlo per non incorrere nella legge, vero?»

Giudice Martin: «Io sostengo che la domanda…»

R. «Ma che vi prende a tutti? Se credete di farmi paura vi sbagliate! Ho un sacco di amici e vi faranno vedere che Vic Carlatti non si farà incastrare…»

Giudice Newbold: «Signor Bradford, ha altre domande?»

Bradford: «Credo che basti, Vostro Onore.»

Quando Nora prestò giuramento, si sedette e cominciò a deporre con voce soffocata, il tribunale pareva una chiesa. La donna che Jim Haight aveva cercato di uccidere, doveva per forza essere contro di lui… Ma Nora non era contro Jim. Era dalla sua parte, con tutta se stessa; fu una testimone superba, e difese suo marito da tutte le accuse. Ripeté che l’amava, che aveva fede nella sua innocenza. Mentre parlava, i suoi occhi continuavano a posarsi sulla misera figura di Jim che, a pochi passi di distanza, se ne stava a capo chino fissando la punta delle proprie scarpe sporche.

Nora non poté offrire ai giurati nessun fatto positivo per scagionare il marito, ma implorò per lui con tutta la forza della sua fede. Carter Bradford, generosamente, rinunziò al contro-interrogatorio.

La sposa sarebbe dovuta essere l’ultimo teste della difesa, ma Pat dal suo posto cominciò a fare segni frenetici al giudice Martin finché questi, con aria infelice, quasi colpevole, la chiamò a prestare giuramento. Il signor Queen si sporse in avanti sulla sedia, preso da una tensione indescrivibile.

Era chiaro che il giudice Martin non sapeva da che parte cominciare, ma Pat prese le redini del colloquio quasi immediatamente. Era indomabile. “Ma dove vuole arrivare?” si domandò Ellery.

Sebbene fosse un testimone della difesa, Pat fece chiaramente il gioco dell’accusa. Più parlava, e più danneggiava la disgraziata causa di Jim. Dipinse il cognato come un poco di buono, un bugiardo. Raccontò che aveva umiliato Nora, l’aveva trascurata, le aveva rubato i gioielli, le aveva rovinato la vita tormentandola e litigando con lei continuamente… Prima che potesse finire, il pubblico fischiava; il giudice Martin sudava come una fontana e faceva di tutto per rimandare la ragazza al suo posto. Nora fissava la sorella come se la vedesse per la prima volta, ed Hermy e John scivolavano sempre più giù dai loro sedili come due statue di cera sul punto di sciogliersi.

Il giudice Newbold interruppe Pat nel bel mezzo di una requisitoria contro il cognato.

«Signorina Wright, si rende conto di essere una teste della difesa?»

«Sono molto spiacente, Vostro Onore» ribatté Pat seccamente. «Ma io non posso sopportare di assistere a questa dolorosa commedia quando so che Jim Haight è colpevole…»

«Mi oppon…» cominciò il giudice Martin fuori di sé.

«Signorina» cominciò a sua volta il giudice Newbold irosamente. Ma Pat lo prevenne.

«È colpevole, come dicevo anche a Bill Ketcham ieri sera…»

«Che cosa?»

L’esplosione era venuta contemporaneamente dal giudice Newbold, da Eli Martin e da Carter Bradford. Per un momento il pubblico rimase in silenzio, agghiacciato dalla sorpresa; poi si scatenò una specie di giudizio universale, e il giudice Newbold ruppe la seconda mazzetta.

«Vostro Onore!» gridò al di sopra del baccano il giudice Martin. «Voglio che sia messo immediatamente a verbale che la dichiarazione fatta dalla mia teste un minuto fa mi giunge assolutamente nuova. Non avevo la minima idea che…»

«Un momento, un momento, giudice Martin» gemette il giudice Newbold con voce strozzata. «Signorina Wright!»

«Dica, Vostro Onore» fece Pat sorpresa, come se non riuscisse a capire il perché di tanta agitazione.

«Ma ho sentito bene? Ha detto d’aver parlato con Bill Ketcham, ieri sera?»

«Sì, Vostro Onore» assentì Pat rispettosamente. «E Bill era del mio parere…»

«Mi oppongo!» urlò Carter Bradford. «Questa è una commedia preordinata!»

La signorina Wright rivolse a Carter Bradford uno sguardo innocente.

«Un momento, signor Bradford!» Il giudice Newbold si sporse dal suo seggio. «Che cos’è accaduto ieri sera?»

«Ecco: Bill ha detto che Jim era colpevole senz’altro, e che se io gli avessi promesso di…» Pat arrossì. «Ehm, se io gli avessi promesso una certa cosa, lui avrebbe fatto sì che Jim avesse quel che si meritava. Disse che avrebbe parlato agli altri giurati e, da buon agente d’assicurazioni, ha detto che li avrebbe senz’altro persuasi tutti. Ha detto ch’io ero la ragazza dei suoi sogni, e che per me avrebbe scalato anche l’Himalaya.»

«Silenzio in aula!» ruggì il giudice Newbold. «Dunque, signorina Wright» continuò poi, cupo in volto. «Dobbiamo credere che ieri sera lei ha avuto una conversazione con Bill Ketcham, il giurato numero sette di questo processo?»

«Sì, Vostro Onore» fece Pat con gli occhi spalancati. «C’è qualcosa di male? Se l’avessi saputo…» il resto delle sue parole si perse nel baccano.

«Usciere, sgombrate l’aula!» urlò il giudice Newbold.

«Ed ora sentiamo tutto» fece il giudice Nevvbold con voce così fredda, che a Pat vennero le lacrime agli occhi.

«Siamo usciti insieme, Bill ed io, sabato sera. Bill m’ha detto qualcosa a proposito di non farci vedere, perché forse non era legale; così siamo andati in un ritrovo notturno di Slocum che lui conosce. Da allora ci siamo tornati tutte le sere. Io gli ho detto che Jim era colpevole, e Bill mi ha dato ragione; lui pensa che…»

«Vostro Onore» cominciò il giudice Martin con voce terribile.

«Eli Martin, se la sua reputazione non fosse… io penserei… Ohi, laggiù! Ketcham numero sette! In piedi!»

Il grasso Bill Ketcham, l’assicuratore, cercò di obbedire, ma ricadde a sedere. Finalmente riuscì a rizzarsi, e rimase in piedi oscillando leggermente.

«Bill Ketcham, è vero che ha trascorso tutte le sere, da sabato in qua, in compagnia di questa signorina? Le ha veramente promesso d’influenzare gli altri giurati…? Usciere! Dakin, prendetelo!»

Ketcham fu afferrato nella corsia principale mentre tentava di guadagnare la porta, dopo aver fatto lo sgambetto a due colleghi giurati. Quando fu trascinato davanti al giudice, cominciò a balbettare:

«Io… io non credevo di far niente di male, signor giudice. Io non mi sono reso conto, signor giu… giudice. Io giu… giuro che tutti sanno che quel figlio d’un cane è colpevole…»

«Fermate quest’uomo» mormorò il giudice Newbold. «Usciere, metta dei piantoni alle porte. C’è una sospensione di cinque minuti. Il resto dei giurati deve rimanere dove si trova. Nessuno dei presenti lasci l’aula.»