Выбрать главу

Jeanne Kalogridis

Il patto con il vampiro

per S.

Anche il diavolo è un angelo.

MIGUEL DE UNAMUNO

Il diario di Arkady Tsepesh

(senza data, nella copertina interna, con calligrafia incerta)

Dio, nel Quale io non ho fede, aiutami! Non credo in Te: non ci credevo ma, se devo accettare il Male infinito che sono diventato, allora prego che esista anche il Bene infinito, e che abbia misericordia di ciò che rimane della mia anima.

Io sono il lupo. Io sono Dracula. Il sangue degli innocenti macchia le mie mani, e ora io attendo di ucciderlo…

Capitolo primo

Il diario di Arkady Tsepesh

5 aprile 1845. Mio padre è morto.

Mary sta dormendo da ore nel vecchio letto con le rotelle che mio fratello Stefan ed io dividevamo da bambini. Poverina, è talmente esausta, che il chiarore della candela non la disturba. Come è assurdo vederla giacere lì, accanto al piccolo fantasma di Stefan, circondata dagli oggetti della mia infanzia, all’interno di queste alte mura di pietra che si sgretolano, con i loro corridoi animati dai bisbigli delle ombre dei miei antenati. È come se il mio presente e il mio passato si fossero, all’improvviso, scontrati.

Intanto, sono seduto alla vecchia scrivania di quercia dove imparai a scrivere, facendo scorrere, di tanto in tanto, la mano sulla superficie tarlata, con i segni lasciati da successive generazioni di irrequieti giovani Tsepesh. L’alba si avvicina. Attraverso la finestra che dà a nord, vedo, contro il cielo grigio che si rischiara, i maestosi bastioni del castello di famiglia dove lo zio ancora dimora.

Rifletto sulla mia superba eredità e piango… silenziosamente per non svegliare Mary, ma le lacrime non portano sollievo al dolore: soltanto lo scrivere allevia la mia pena. Comincerò un diario, per registrare questi giorni dolorosi e per aiutarmi, negli anni futuri, a ricordare meglio mio padre. Devo tenere la sua memoria sempre viva nel mio cuore, in modo da potere, un giorno, dipingere a parole per mio figlio — non ancora nato — un ritratto veritiero di suo nonno.

Avevo sperato così tanto che potesse vivere abbastanza a lungo per vedere…

No. Niente più lacrime. Scrivi! Vedere questo comportamento rattristerà Mary, se si sveglia. Ha sofferto abbastanza per colpa tua.

I giorni appena trascorsi ci hanno visto muoverci senza sosta, trasportati attraverso l’Europa da navi, carrozze e treni. Non mi sembrava tanto di ripercorrere il mio viaggio attraverso il continente quanto di viaggiare all’indietro nel tempo, come se avessi lasciato il mio presente in Inghilterra e ora mi muovessi, rapidamente e irrevocabilmente, verso il mio oscuro passato ancestrale.

Nel vagone-letto traballante proveniente da Vienna, mentre giacevo accanto a mia moglie e fissavo il gioco di luce e ombra contro le cortine tirate, mi sentii lacerare dall’improvvisa e spaventosa convinzione che la vita felice che avevamo condotto a Londra non sarebbe mai più potuta ritornare.

Non c’era nulla a legarmi a quel presente, nulla tranne il bambino e Mary. Mary, la mia àncora, che dormiva profondamente, serena e incrollabile nella sua lealtà, nel suo appagamento e nei suoi princìpi. Giaceva su un fianco, la sola posizione confortevole al settimo mese di gravidanza, con le palpebre di alabastro bordate di una frangia dorata, che velavano l’oceano blu dei suoi occhi.

Attraverso il sottile tessuto bianco della camicia da notte, osservai la sua pancia tesa, il futuro imperscrutabile che vi si trovava, e la toccai con una mano, delicatamente, per non svegliarla, lasciandomi andare a improvvise lacrime di gratitudine.

È così risoluta, così calma, placida come un mare immobile. Cerco di nascondere la mia emozione traboccante per timore che la sua intensità la travolga. Mi sono sempre detto che avevo lasciato in Transilvania quel lato di me, quella parte dedita a umori oscuri e alla disperazione, quella parte che non aveva mai conosciuto la vera felicità, finché non avevo abbandonato la mia terra natia. Prima di andare in Inghilterra, avevo scritto volumi di nera poesia meditativa nella mia lingua madre ma, una volta che mi trovai in quel paese, smisi completamente di scrivere poesie. Nella mia lingua acquisita non ho mai tentato di fare altra letteratura che la prosa.

Dopotutto, quella era una vita diversa; ah, ma il mio passato è diventato il mio futuro.

Sul treno sferragliante proveniente da Vienna, giacevo accanto a mia moglie e al bambino non nato e piangevo… per la gioia che fossero con me, per il timore che il futuro potesse vedere quella gioia offuscata, per l’incertezza di fronte alle notizie che mi attendevano nel maniero sito nell’alto dei Carpazi.

A casa…

In tutta onestà, però, non posso dire che la notizia della morte di mio padre fosse stata uno shock. Sulla strada del ritorno da Bistritsa (voglio dire Bistritz: scriverò questo diario interamente in inglese, purché non lo dimentichi troppo presto), ebbi una forte premonizione. Una strana sensazione di terrore si impossessò di me nell’istante in cui alzai il piede per salire nella carrozza. La mia mente era già turbata — avevamo ricevuto il telegramma di Zsuzsanna da una settimana, e non c’era modo di sapere se le condizioni di mio padre fossero peggiorate o migliorate — e non si placò alla reazione del cocchiere quando gli dissi quale era la nostra destinazione. Era un vecchio gobbo, che mi fissò in viso ed esclamò mentre si faceva il segno della croce:

«In nome del cielo! Siete uno dei Dracula!».

Il suono di quell’odiato nome mi fece arrossire di rabbia.

«Mi chiamo Tsepesh», lo corressi con freddezza, sebbene sapessi che non sarebbe servito a niente.

«Come dite voi, buon signore; soltanto, vogliate gentilmente ricordarmi al Principe!».

E il vecchio si segnò di nuovo, questa volta con la mano che tremava. Quando gli dissi che, di fatto, il mio prozio, il Principe, aveva dato ordine che un cocchiere ci venisse incontro, cominciò a piangere e ci supplicò di attendere fino al mattino.

Avevo dimenticato che la superstizione e il pregiudizio erano comuni tra i miei ignoranti compatrioti; in effetti, avevo dimenticato che cosa volesse dire essere temuto e segretamente disprezzato per essere un boier, un membro dell’aristocrazia. Avevo spesso accusato mio padre per l’intenso disprezzo che, nelle sue lettere, mostrava verso i contadini; ora mi vergognavo di scoprire che lo stesso atteggiamento alloggiava anche in me.

«Non essere ridicolo», dissi seccamente al conducente, consapevole che Mary, la quale non parlava quella lingua, aveva nondimeno percepito la paura nel tono del vecchio contadino e ci stava guardando entrambi con ansia e curiosità. «Non te ne verrà alcun male».

«Neanche alla mia famiglia. Soltanto, giuralo, buon signore…!».

«Neanche alla tua famiglia. Lo giuro», dissi in fretta, e mi voltai per aiutare Mary a salire nella carrozza.

Mentre il vecchio indietreggiava per ritornare al suo sedile, inchinandosi e proclamando, «Dio vi benedica, signore! E anche la signora», cercai di calmare la curiosità e la preoccupazione di mia moglie, dicendo che le superstizioni locali proibivano i viaggi di notte nella foresta. Almeno in parte, era la verità.

Così, partimmo alla volta dei Carpazi. Era tardo pomeriggio ed eravamo già esausti per aver viaggiato un giorno intero, ma l’urgenza del telegramma di Zsuzsanna e la determinazione di Mary di andare incontro alla carrozza già ordinata, ci spinse a proseguire.

Mentre sorpassavamo il vicino paesaggio di verdi pendii boscosi cosparsi di fattorie e da qualche occasionale villaggio di contadini, Mary fece un’osservazione con sincero piacere sul fascinò del paesaggio, il che mi rallegrò, poiché provavo una non lieve pena per averla portata in un paese a lei straniero.