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Poi scomparve.

Confuso, mi guardai intorno e non vidi nient’altro se non gli stessi ontani e alberi di pino. Attesi qualche minuto, poi feci scivolare la pistola nella cintura dei pantaloni e scesi dal calesse. Legai i cavalli a un ramo, quindi cominciai a esaminare l’area. Non c’era nulla di particolare, solo lo stesso fitto fogliame di prima e un terreno scuro, quasi interamente ricoperto da un tappeto di foglie morte e di aghi di pino.

Ma, quando mi avvicinai al grande albero dove il fantasma di Stefan si era fermato, il terreno, all’improvviso, cedette, morbido e spugnoso, sotto i miei piedi. Scansai i detriti vegetali bagnati e scoprii della terra appena scavata, più scura e meno compatta rispetto al suolo circostante.

Il cuore mi cominciò a battere più velocemente. Rapidamente, tolsi altre foglie morte. Così facendo, scoprii qualcosa di duro e bianco: il frammento di un osso di un animale, pensai. Ma, prima che potessi esaminarlo, i cavalli emisero degli alti nitriti di terrore.

Alzai lo sguardo e vidi un lupo, che correva veloce e basso tra gli alberi, diretto non verso il calesse e i cavalli legati, ma verso di me.

Mi raddrizzai e nel tempo di mezzo secondo ebbi la spaventosa idea che Stefan mi avesse attirato lì per essere vittima dello stesso destino del mio povero fratello; immaginai il mio sangue dal colore brillante che si mescolava con la pioggia gentile e adornava la foresta di rugiada color cremisi.

Il lupo saltò. Tirai fuori la pistola da sotto il cappotto e feci fuoco. A meno di quattro piedi di distanza l’animale emise un acuto ululato e cadde a metà balzo, nel punto più alto del salto, coperto di sangue alla giuntura tra zampa e spalla.

Nonostante ciò, si riprese e si alzò, insicuro, zoppicando su tre zampe e mi si avvicinò. Fui costretto a sparare ancora; questa volta la sua vicinanza mi permise di mirare per bene e di piazzare una pallottola proprio sopra e nel mezzo degli occhi completamente bianchi. La creatura cadde a terra con un lamento che terminò in un rantolo.

Non volevo niente di meglio che lasciarmi cadere privo di forze, appoggiandomi contro il più vicino tronco d’albero e calmare il mio tremore, ma l’inquietante ricordo dei due lupi morti che giacevano davanti al cancello aperto della nostra tomba di famiglia, mi persuase a rimanere con la pistola a portata di mano.

In quel momento ci fu un rumore di ramoscelli e foglie smosse; il secondo lupo apparve dopo appena qualche secondo. Mi costrinsi ad aspettare finché fu abbastanza vicino perché la mira fosse sicura e quando, infine, fui pronto a fare fuoco, dovetti tenere fermo con la mano sinistra il braccio destro che tremava.

Il lupo caricò e io premetti il grilletto, ma la pioggia rada che gocciolava attraverso la volta della foresta aveva ricoperto l’arma di gocce d’acqua; mentre facevo fuoco mi scivolò dalla presa mandando la pallottola fuori bersaglio.

Nella frazione di secondo che mi ci volle a capire che avevo mancato il bersaglio, seppi che tutto era perduto. Il lupo saltò verso la mia gola. Il suo corpo si scontrò con il mio, facendomi cadere la pistola dalla mano. Delle enormi zampe mi colpirono alle spalle, mandandomi riverso sul terreno bagnato. Mi irrigidii per il dolore di quei crudeli denti sul mio collo, pensando non all’ironia del mio destino, né al tradimento del fantasma di mio fratello, ma solo a Mary e al bambino.

Il lupo abbassò il muso sul mio e mi osservò con grandi occhi incolori e bestiali; la sua bocca ansimante rivelò una lunga lingua lunga e delle zanne ingiallite luccicanti di saliva. Ringhiò e spalancò la bocca, preparandosi ad uccidere. Sentii il suo respiro, caldo sulla tenera pelle scoperta della gola. Ansimando, chiusi forte gli occhi e mi preparai a morire.

E poi accadde l’impossibile.

Sentii un movimento al di là degli occhi chiusi ma non fu accompagnato dal dolore della gola che veniva squarciata. Il calore sul mio collo fu sostituito dalla fresca umidità della foresta; la pressione delle zampe contro le mie spalle scomparve.

Aprii gli occhi e vidi che il lupo si era ritirato. Ora sedeva sulle zampe posteriori ai miei piedi come un cane obbediente e ansimante, con la lingua che pendeva a lato della sua bocca mortale.

Mi tirai su fino a restare mezzo seduto. Il lupo ringhiò e fece l’atto di mordere, poi si mosse come per caricare di nuovo, ma con riluttanza all’ultimo istante si trattenne, come se un’invisibile barriera lo trattenesse.

Non persi tempo a chiedermi la ragione di quell’incredibile fenomeno. Trovai il revolver a terra, lì vicino, e mi mossi lentamente, con circospezione, verso di esso, mentre il lupo ringhiava la sua disapprovazione ma rimaneva, comunque, immobile. Finalmente, afferrai con rapidità la pistola e feci fuoco a bruciapelo verso la creatura, che rimase ferma, senza difendersi, tanto che provai un moto di pietà. Morì con un debole lamento mentre la testa gli cadeva sulle zampe anteriori.

Dopo, ci fu soltanto silenzio: nemmeno lo zampettio degli scoiattoli o il cantare degli uccelli, ma soltanto il soffice, continuo tamburellare della pioggia sulle foglie. Il terzo lupo non apparve. Quando il mio tremore si affievolì, determinai con i passi i limiti del terreno morbido. Era un’area più piccola di quella che mi aspettavo, forse soltanto tre piedi quadrati, troppo piccola per un corpo. Con un oscuro divertimento che sconfinava nell’isteria, cominciai a ridere: forse le leggende del moroi erano vere. Forse mio fratello mi aveva condotto a un nascondiglio segreto di gioielli e monete d’oro.

Ossessionato, cominciai a scavare con null’altro che le mie mani.

Fu un lavoro faticoso. Il terreno era pesante per l’umidità, e dopo un’ora, forse due, ero fradicio, coperto di fango, indolenzito. La pioggia stava venendo giù fitta. Ero sul punto di desistere, quando le mie dita gelate batterono finalmente contro qualcosa di soffice e di cedevole sotto un pollice di acqua fangosa.

Sembrava uno spesso strato di tessuto. Freneticamente, tolsi abbastanza fango per capire le dimensioni del tesoro nascosto: era un quadrato di circa dodici pollici di lato e, quando scavai abbastanza profondamente per metterci sotto le dita, potei sentire che era, apparentemente, una scatola perfettamente quadrata di qualche materiale molto duro — o metallo o legno — sotto la stoffa.

Mi inginocchiai sul terreno umido e cedevole e mi chinai in avanti, inserendo prima le dita, poi le mani, sotto la scatola. Ci volle qualche momento, prima che potessi avere una presa abbastanza buona e abbastanza forza per tirarla fuori dalla terra bagnata ma, alla fine, diedi un robusto strattone e quella venne fuori con un forte risucchio.

Caddi seduto a terra e studiai il mio tesoro: era stato avvolto in parecchi strati di fine seta nera, ora bagnata e sporca, ma troppo nuova e troppo ben conservata per essere stata per più di un giorno nella terra. Ansiosamente, tolsi l’involucro e scoprii al di sotto una semplice scatola di legno non verniciato, ricavata dal pino di quei luoghi, con un chiavistello di ottone non lavorato.

Misi la scatola per terra e aprii la serratura, tagliandomi il pollice sul bordo tagliente e frastagliato, ma nel timore e nell’eccitazione, non ci feci caso. Tirai indietro il chiavistello, le mie dita scivolarono sul coperchio, e cercai di fare forza per aprire la scatola. Ci volle un bel po’ di sforzi, poiché il legno si era gonfiato per l’umidità, ma alla fine ci riuscii, e gettai via il coperchio.

E gridai quando mi trovai a fissare gli occhi spalancati e velati dalla morte di Jeffries.

Balzai in piedi, e la scatola mi cadde dalle mani. La testa di Jeffries rotolò attraverso le foglie fradice sciaguattando e si andò a fermare con la faccia rivolta verso l’alto proprio sul bordo della fossa aperta. Mentre rotolava, qualcosa gli cadde dalla bocca aperta, congelata nella stessa posa che aveva avuto nel mio sogno. Allungai la mano verso quell’oggetto bianco sullo scuro terreno luccicante e raccolsi una testa di aglio.