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Il collo era stato segato nella stessa maniera di quello di mio padre e la bocca riempita di quella pianta dal forte sapore. La sua pelle era più bianca di quanto ritenessi possibile per quella di qualsiasi persona umana; era, precisamente, del colore del gesso, persino più chiara dei ciuffi di capelli arruffati che si ergevano in ogni direzione sulla sua testa.

Un tuono rimbombò mentre fissavo, atterrito, la testa segata. Un improvviso nubifragio si abbatté sul rifugio di alberi, versando su di me e sul mio sfortunato e vecchio ospite una violenta cascata d’acqua, lavandomi via il fango dalle gambe dei pantaloni e dalle maniche. La pioggia cadeva sugli occhi aperti ma ciechi di Jeffries, gli incollava i capelli alla testa e portava via i ramoscelli, la terra, e la solitaria foglia di ontano che si era appiccicata alla sua guancia bianca come il marmo.

Per un istante pensai che avrei vomitato, ma ciò che eruppe dalle profondità del mio essere terrorizzato fu completamente inaspettato.

Cominciai a ridere.

Dapprima piano, poi alzandomi a toni più alti finché il suono divenne isterico. Gettai indietro la testa e risi forte, piangendo, lasciando che la pioggia si mescolasse alle lacrime, che cadesse nei miei occhi aperti come faceva in quelli privi di vista di Jeffries: lasciando che mi riempisse la bocca ghignante finché mi chinai in avanti, soffocando, ancora in preda alle convulsioni per una felicità infernale.

Poiché compresi: Stefan era apparso per la prima volta prima della morte di Jeffries. Jeffries era soltanto una coincidenza, un ripensamento.

C’erano altri tesori da trovare.

E io li trovai, fratellino. Oh, se li trovai!

Spalancai le braccia, abbracciando la pioggia e girando in cerchio come un bambino che vede quanto può resistere prima di avere le vertigini. Danzai, camminando tra i cespugli, dimentico dei lupi, incurante, premendo i piedi nel terreno fertile, morbido, fermandomi quando cedeva per scavare nel fango come un cane deciso a recuperare un osso.

Trovai delle ossa… un cimitero pieno… e tutte erano dei crani. Crani grandi e anche piccoli. I bambini erano seppelliti senza tante cerimonie; trovai le loro teste in una fossa comune. Molti di quei minuscoli crani avevano una forma irregolare e facevano pensare a delle evidenti deformità. Un bambino aveva metà di una seconda testa che emergeva dal cranio, come se avesse cercato e non fosse riuscito a dare vita ad Atena.

Smisi di aprire le scatole dopo la seconda — che conteneva la testa di un uomo decomposto da parecchi mesi e resa scivolosa dal fango — sebbene continuassi il mio folle scavare, collezionando le piccole scatole come tanti trofei. Ma dopo circa due dozzine — oltre a troppi teschi di bambini da contare — trovai che la mia energia maniacale veniva meno, sebbene il terreno cedesse ancora in parecchi punti proprio vicino a me.

E quanti altri cimiteri come quello erano nascosti nella foresta senza fine?

Troppi posti da scavare per un uomo solo. Troppi per poterli cercare da solo.

Ma dove erano finiti i corpi, quelli più grandi degli adulti e quelli piccoli e deformi dei poveri bambini abbandonati?

Ah, Stefan, penso che anche per quello seppi subito la risposta.

C’erano dei frammenti di ossa mischiati all’insieme di ramoscelli, foglie e aghi di pino che ricoprivano il terreno della foresta.

Setacciando la terra attentamente, mi convinsi che i corpi erano stati lasciati per i lupi. I frammenti erano tutto ciò che restava dopo che gli animali avevano fatto a pezzi le ossa più grandi tra le possenti mascelle, per arrivare al saporito midollo.

Chi può dire quanto tempo rimasi lì, raspando come un folle nel fango? Come potrebbe un qualsiasi essere umano rendersi conto del passare del tempo di fronte a un tale orrore?

So soltanto questo: che quando alla fine crollai, tremante ed esausto, incapace di muovere un’altra manciata di pesante terra bagnata, caddi a terra e guardai in alto tra i rami verso una piccolissima fessura di cielo rossastro, e seppi che le nuvole si erano diradate e che il sole stava calando.

Non sono certo di quello che accadde allora: una consolante pazzia mi prese completamente e ridusse la mia mente ad una tabula rasa, incapace di ricordare il passato, incapace di trattenere il presente. Non ricordo se rimisi a posto le teste e le ossa che avevo scoperto (spero di averlo fatto per proteggere il povero Jeffries e i suoi compagni di sventura da qualsiasi ulteriore offesa dopo la morte) ma, apparentemente, riuscii a risalire nel calesse e a guidare verso casa.

Prima di arrivare a casa, in disordine, bagnato e pieno di fango, ero in delirio. Mary dice che sono stato malato per due giorni con una febbre così pericolosamente alta la notte del dodici, che hanno temuto che non sopravvivessi. Lei sembra sapere che mi è accaduto qualcosa di terribile; è gentile e affettuosa, e non mi fa pressioni.

Come glielo potrò mai dire? Da allora non sopporto il pensiero di lei che vive così vicino a un tale pericolo…! Sono responsabile per averla portata in questa camera degli orrori e, se accade qualcosa a lei o al bambino…

Non posso scrivere nient’altro, poiché scrivere mi fa ricordare e pensare e, quando comincio a ricordare, quando comincio a pensare, la follia ancora mi minaccia…

Capitolo settimo

Il diario di Mary Windham Tsepesh

14 aprile. Per due giorni Arkady è stato così terribilmente malato che ho avuto paura di lasciarlo anche solo per scrivere nel mio diario.

Le sue abitudini giornaliere sono di alzarsi tardi, di pranzare, poi leggere, scrivere o passeggiare fino a poco prima del tramonto, quando si dirige al castello. Di solito non ritorna se non dopo che io sono addormentata.

Ma l’altro ieri è tornato a casa poco dopo il tramonto. Il vecchio giardiniere, Ion, lo ha visto arrivare. Ha detto che qualcosa di strano nel modo in cui Arkady guidava i cavalli lo aveva messo in allarme e così è corso in casa gridando:

«Doamna! Doamna!».

Io stavo leggendo in uno dei salotti, ma il tono stridulo nella voce del vecchio mi fece abbandonare il libro e correre verso l’ingresso. In qualche modo, il mio cuore sapeva che qualcosa di terribile era accaduto a mio marito.

Arrivai in tempo per vedere Ion che teneva aperta la massiccia porta mentre Arkady entrava barcollando, con i capelli e i vestiti in disordine, fradicio, coperto di fango. I suoi occhi erano lucidi ed eccitati, i suoi lineamenti contorti come per il dolore… ma stava ridendo. Ridendo: un suono talmente cattivo che mi gelò il cuore.

Mi portai una mano alla gola, alla piccola croce d’oro nascosta sotto la stoffa del vestito, e mormorai, quasi troppo sommessamente per essere udita sopra la sua risata isterica:

«Arkady».

Lui alzò lo sguardo, spaventato. I suoi occhi si fissarono su di me e il suo divertimento divenne, improvvisamente, terrore, che crebbe finché non lo poté più sopportare, ma cadde ini ginocchio e si coprì il viso con la mani. Sotto di esse emise un lungo e basso lamento, poi mormorò:

«I teschi! Tutti quei piccoli teschi!».

Mi avvicinai a lui mentre si inginocchiava, e gli premetti una mano sulla fronte; era così caldo che guardai immediatamente Ion e ordinai:

«Manda subito qualcuno a prendere il dottore».

Lui sembrò capire abbastanza bene la parola doktor, dato che annuì e si mise a correre in direzione delle stanze dei domestici.

Proprio allora, Arkady mi abbracciò le gambe, premendo il viso contro il mio ventre e pianse:

«La sua testa! La sua testa! Stefan aveva ragione! C’era un tesoro nella foresta!».

Vennero Dunya e un’altra delle cameriere, Ilona, e tutte e tre riuscimmo a mettere Arkady a letto. Quella notte la febbre crebbe e il delirio peggiorò talmente che tutto quello che Dunya e io potemmo fare fu trattenerlo dal gettarsi giù dal letto. Gridava cose orribili, spaventose, a proposito di ossa, di teschi, del signor Jeffries, di suo fratello Stefan, che era morto bambino, e dei lupi.