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Era più giovane, sì, più giovane, con un accenno di grigio alle tempie rimarcando ancora di più la sua somiglianza con papà e con Arkady. Gli presi le mani fredde come il marmo e fui attirata verso di lui.

Ci baciammo come fanno i parenti: con solennità su ogni guancia, con le mani fortemente strette,e poi lui mi circondò la vita con le braccia e lentamente, dolcemente, sciolse la mia camicia da notte e la tirò giù fino alla vita. Io mi scossi per lasciarla cadere e la scostai con un calcio. Lui mi strinse contro di sé, con quella mano forte ferma contro la mia schiena nuda quasi diritta e mi baciò le labbra in una maniera che era ben diversa dal modo che si usa tra parenti, con lingua, denti e calore.

Semisvenuta per il desiderio, mi chinai all’indietro nell’abbraccio mostrandomi a lui: la testa e le spalle caddero all’indietro, facendo sì che i miei lunghi, neri capelli sciolti, arrivassero soltanto a qualche pollice da terra; il mio bianco petto, reso argenteo dalla luce delle stelle, si curvò all’indietro allontanandosi da lui, come la luna crescente.

Lui si chinò in avanti, inarcando il suo corpo contro il mio, come una scimitarra, e mi baciò nuovamente, sfiorando ancora con le sue labbra — non più tanto fredde — la mia bocca, il mento, e la curva della mandibola, finché trovarono il collo nudo, offerto, e le minuscole, eleganti ferite, proprio sopra la clavicola.

La sua lingua le circondò delicatamente, e io rabbrividii alla sensazione di una squisita e febbrile tenerezza. La sua bocca si spalancò, le sue labbra premettero contro la mia pelle e la lingua cominciò a muoversi con rapidità, avidamente, sulle ferite. Sentii la pressione sempre delicata dei denti, affilati come rasoi, che si fermavano al centro di ogni incisione, parzialmente guarita, in attesa di colpire come un serpente, di affondare ancora in profondità nella mia carne.

Tremai, in attesa.

Lui sollevò la testa e mi sussurrò all’orecchio:

«No. Sei ancora troppo debole. Permettimi di essere il primo stanotte…».

Con mia amara delusione, si ritrasse, tanto rapido quanto la volta precedente aveva colpito e mi liberò dall’abbraccio. Gridai debolmente per la disperazione, ma ammutolii quando vidi le sue mani lampeggiare, fosforescenti, contro il mantello nero. Questo cadde a terra e lui manovrò rapidamente per aprire il suo panciotto e poi la camicia.

Non li tolse ma li lasciò aperti, e con una mano tirò indietro la stoffa, rivelando un ampio petto possente che sembrava scolpito nel marmo, muscoloso e forte come quello di un giovane dio romano. Alzò quindi l’altra mano e portò una lunga unghia appuntita, tagliente come un coltello d’acciaio, vicino al suo cuore, lacerando la bella carne e lasciando, come scia, un rosso taglio diagonale.

Poi affondò in quella ferita, fissandomi mentre trovava la vena e la incideva. Io vidi la lieve, passeggera scintilla di dolore nei suoi occhi, che fu del tutto cancellata da una crescente eccitazione. Il mio sguardo si abbassò sul rosso segno sul suo petto e sul denso liquido rosso che ne sgorgava. Lo fissavo, avvinta, sbalordita, piena di venerazione.

Le sue dita affondarono nei miei capelli alla nuca e li afferrarono teneramente, strettamente, poi mi strinse a sé.

Bevvi.

Bevvi come un neonato; bevvi come un’amante. Tanto il tocco, quella prima notte, era stato gelato, tanto la sua pelle era stata fredda, tanto più caldo, ora, era quel sangue… più caldo di quello di una qualsiasi creatura vivente. Mi bruciò le labbra, la lingua e la gola, e mi fece scorrere lacrime lungo le guance fin nella bocca mescolando la rugiada con il ferro.

Quel gusto! Quel gusto oscuro, oscuro…!

Mi diedi da fare rumorosamente, lappando avidamente con abbandono animale; misi le braccia intorno a lui e lo strinsi più vicino a me, con un impeto di forza che lo fece ridere, piano e sommessamente, ma anche con la leggera sorpresa di uno che è sedotto, sopraffatto fino a un’improvvisa, stupefacente debolezza.

Sorrisi persino quando banchettavo, udendo in quella risata un accenno di quel dolce, languido piacere, che avevo conosciuto quando lui beveva da me. Il mio improvviso abbraccio minacciò il suo equilibrio, e lui fu forzato a tenersi in equilibrio contro di me, premendo i palmi delle sue mani contro la mia schiena, e premendoli sempre più forte contro di me finché, alla fine, li affondò in profondità nella mia carne per non cadere.

Mentre bevevo, imparavo. Con il suo sangue venne la conoscenza e la prospettiva sui secoli; adesso potevo vedere tutto, vedere perché doveva partire per l’Inghilterra. Il mondo sta cambiando con rapidità geometricamente crescente. La nostra terra è lontana ed è stata risparmiata per quattrocento anni, ma la civiltà si sta infine avvicinando. Il mondo e i suoi governi la invadono; lui fu testimone con trepidazione dell’instaurazione del potere austriaco, che segnò l’inizio della fine del suo regno.

Ha eluso il loro controllo ma, alla fine, cercheranno di intervenire e, quando lo faranno, la Transilvania sarà troppo piccola. Diventerà difficile, se non impossibile, impedire a degli sconosciuti di fare domande sulla sparizione di viaggiatori di passaggio, viaggiatori che, recentemente, sono stati ben pochi, ma che portano utili notizie di quel mondo che cambia. E ad ogni successiva generazione, gli abitanti del villaggio diminuiranno, e saranno più difficili da controllare.

I Carpazi diventano ogni giorno meno sicuri, meno capaci di fornire sostentamento. E così, con la paziente e astuta preveggenza di un antico predatore, ha mandato mio fratello a Londra per essere istruito secondo i costumi di quella grande città, in modo che il suo passaggio in quel luogo possa essere facilitato.

In quel momento compresi, con abbagliante chiarezza, e piansi anche, nel sapere che mi aveva amato abbastanza per compiere il miracolo mediante il quale avrei potuto accompagnarlo verso la salvezza. In Inghilterra.

Oh, ma è più di questo, molto più di questo! Lui è rimasto solo da quando sua moglie morì, quasi quattro secoli fa. Ma ora, tra tutte le donne, lui ha scelto me e, mentre bevevo, l’emozione sgorgava da lui e mi circondava come una scura ondata rossa e, trasportata da essa, c’era la consapevolezza che, con il nostro scambio, lui era legato a me e io a lui, per sempre.

Mi aveva scelto come sposa perché io avevo scelto lui. Io l’avevo attirato a me e lui aveva visto che la mia solitudine era un bisogno, una fame anche più grande della sua.

Mi aveva scelto perché io soltanto lo amavo liberamente: no, è una parola che va oltre l’amore. Io lo veneravo nella maniera che lui meritava.

Bevvi e gustai la sua passione e la sua inflessibile volontà; il suo odio verso i rumini, e il suo dolore quando essi lo insultavano chiamandolo mostro.

Lui non è un mostro, non è un Demonio. È un santo, un angelo del Cielo!

No… più di questo. È un dio!

Bevvi e piansi di dolore per le innumerevoli persone amate che erano morte e sepolte, per il dolore di sapere che ogni fresco e giovane viso, ogni nuovo amore, sarebbe stato visto appassire a sua volta e morire. Vidi, in pochi secondi, la processione di un centinaio di volti, tutti diversi, tutti simili, come Arkady e papà, tutte variazioni minori del bel viso di Vlad. Ancora, ancora e ancora, quell’amore, quella perdita, quel nuovo dolore che creava una solitudine eterna e più orribile di quella che avevo assaporato nella mia breve vita mortale.

Bevvi, e seppi che noi due non saremmo mai più stati di nuovo soli.