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Infine si agitò e si lamentò; le sue mani si mossero debolmente sulla mia schiena, tentando con poca forza di allontanarmi. Con l’istinto disperato di una animale in procinto di morire di fame, premetti il mio viso con più forza contro il suo petto e leccai con furia il sangue che ne sgorgava, caldissimo contro la pelle fredda.

«Zsuzsanna», gemette.

Era una preghiera, una supplica, e sentii scemare la sua incredibile potenza. Scemare ed entrare in mio possesso. Ebbi la sensazione di un potere più che umano che correva attraverso le mie vene e seppi che, se lo avessi voluto, avrei potuto spezzare la sua spina dorsale come si spezza un ramoscello.

Si fidava di me fino a quel punto. Mi aveva tenuto tra le sue braccia con tutta quella forza e non mi aveva mai fatto del male.

Mi tirai indietro e mi raddrizzai, con i capelli che mi cadevano in avanti, facendomi scorrere la lingua sulle labbra e raccogliendo il sangue che mi gocciolava dal mento con le mani a coppa. Mi pulii i palmi come un gatto e quando, infine, alzai lo sguardo, sazia, serena, onnipotente, i suoi occhi erano accesi di una sensualità selvaggia che confinava con la follia.

Mi afferrò. Oh, lui era il debole e io la più forte, ma io mi gettai all’indietro e mi lasciai prendere, così che la mia estasi potesse essere completa. Gettai indietro i capelli, e scoprii il collo per lui; mi mantenni perfettamente immobile mentre quei denti aguzzi trovavano i loro due piccoli segni e, quando mi bucarono di nuovo, io non gridai, non lottai, ma emisi un lungo e basso sospiro.

Questa volta non bevve a lungo. Mi lasciò in piedi, che oscillavo ubriaca di piacere e, quando si ritirò, gli afferrai le mani e mi inginocchiai davanti a lui, pregandolo di finire quello che aveva cominciato. Non volevo più restare indietro!

Ma lui fu fermo. Spinse di lato la mia mano, e mi chiese di aspettare. Ora, lui è il mio Signore e io farò come lui chiede, ma piansi quando svanì nelle ombre profonde, e corsi alla finestra aperta, chiamandolo piano.

Quando l’aria fresca della notte toccò la mia pelle, ero nuovamente ubriaca, ubriaca di sangue, estasi e potenza.

I miei sensi erano più sensibili, più acuti. La luce delle stelle è abbagliante, bella da accecare, e la foresta canta di vita; riesco a sentire ogni singolo insetto che ronza, ogni animale solitario che si muove tra gli alberi, e le lontane e belle armonie dei lupi.

Il sapore del suo sangue ancora nella mia bocca sembra vellutato, più forte, più inebriante e aromatico di qualsiasi vino. Posso ancora inalare il suo profumo, portato dalla dolce brezza: amaro, penetrante, metallico ma ricco, pieno e inebriante. Di tanto in tanto, tocco con la punta di un dito una delle scure gocce sul mio seno perlaceo e la porto alle labbra, per odorarla, baciarla, assaporarla.

Sono così forte! Potrei uccidere Dunya mentre dorme, spezzarle il collo con un rapido movimento della mano.

Ma non lo farò. Non stanotte. Giocherò questo gioco ancora un altro po’, perché è ciò che lui vuole. Tranquillamente riempirò il bacile con l’acqua della brocca e mi ripulirò del sangue sparso sulle mani e sul viso, e delle gocce sparse sul seno. Rimetterò l’aglio alla finestra, poi scivolerò ancora nella mia camicia e nel letto.

Ma non proprio ora, non ancora. Mancano ancora diverse ore all’alba, e l’odore e il gusto del suo sangue contro la mia pelle è ancora così dolce…

Il diario di Mary Windham Tsepesh

15 aprile. Arkady sa di Vlad. In qualche modo, lo sa. Non ho insistito per sapere i dettagli — ne so troppi per la mia salute mentale — ma, questa mattina, abbiamo avuto una bella e lunga chiacchierata.

Ieri sera si era del tutto ristabilito, e ha dormito bene durante tutta la notte. Almeno così credo, poiché io stessa ho dormito come un morto, esausta dopo una veglia di due giorni ma, quando mi sono svegliata, per poco, da un vago e terrificante sogno su Vlad, ricordo di essermi voltata e di essermi sentita rassicurata nel vedere Arkady beatamente addormentato, che russava leggermente accanto a me. Questa mattina, quando mi sono svegliata e ho aperto le tende per far entrare un gaio sole, Arkady sedeva ben sveglio, quando mi sono voltata. La sua espressione era così pentita e preoccupata che gli ho detto:

«Allora, caro! Che cosa è mai successo?».

Mentre ritornavo al letto per sedermi sul bordo vicino a lui, ha risposto:

«Devo chiederti perdono».

Gli ho preso la mano, ma devo confessare che ho provato una fitta di paura a quelle parole che avrebbero gelato il cuore di qualunque moglie, per quanto possa avere fiducia in suo marito. E poi ho ricordato il nostro litigio di due giorni fa e ho riso.

«Arkady», ho risposto, «io l’ho già dimenticato. Inoltre, tu eri probabilmente già ammalato, e non devi essere incolpato per aver perso la calma. Sei incapace di fare così tanto male da richiedere il mio perdono».

«Non è questo», disse, tanto oscuramente che provai di nuovo un brivido di paura. «Voglio che mi perdoni per aver portato te e il bambino in… in questo posto maledetto!».

Mi sono irrigidita e non ho detto nulla, ma l’ho ascoltato e osservato molto attentamente mentre continuava, abbassando le palpebre ed evitando di guardarmi come se si vergognasse fissando invece lo sguardo sui raggi brillanti di luce dorata che filtravano attraverso la finestra e guardando oltre, alle imposte ancora chiuse della stanza da letto di Zsuzsanna.

«Ho visto cose orribili». No, ha alzato una mano quando mi sono spinta in avanti, sul punto di chiedere. «Tu non devi farmi domande! Non ne posso parlare. Posso dirti soltanto questo: che ti prometto di fare sì che cessino immediatamente e che non accadano mai più. Mi assicurerò che non accada del male né a te né al bambino».

«Oh, Arkady!», gridai. «Per amore tuo e mio, dobbiamo partire! Devi dire a Vlad che non possiamo restare!».

Non gli ho parlato di ciò che avevo visto; ero sicura che fosse stato testimone di qualcosa di simile, e non ho visto ragione di aggiungere della preoccupazione per amore mio alla sua mente già oppressa. Solo una cosa era importante: che, in quel momento, potessi convincerlo ad andare ambedue lontano, lontano da questo luogo.

Ha liberato la mano dalla mia presa.

«Ma gli spezzeremmo il cuore se lo abbandonassimo: sia a lui che a Zsuzsanna».

«Non ha importanza! Diglielo: digli che i dottori ti hanno ordinato una vacanza per la tua salute. Digli che andremo via soltanto per un breve periodo. Potremmo andare a Vienna».

Rifletté su questo e annuì, pensieroso.

«Sì…». Incontrò il mio sguardo e io sorrisi all’arrendevolezza del suo atteggiamento, dei suoi occhi. «Sì. Lo incontrerò oggi e glielo dirò. Sono sicuro che mi permetterebbe qualunque cosa sia necessaria per riacquistare la salute. Anzi, sono sicuro che insisterebbe su questo».

«Oh, Arkady!», esclamai, con autentico sollievo, e gli tesi le braccia.

Lui vide le lacrime nei miei occhi e mi strinse in un abbraccio così stretto che mi mancò il fiato, ma io volevo che non mi lasciasse mai andare. Piangendo, gli dissi che ero stata molto preoccupata, assai preoccupata per lui in quei giorni; gli dissi che era quasi morto e che non potevo sopportare di vederlo ancora un altro giorno in preda al dolore e alla preoccupazione. Anche lui pianse e promise che ce ne saremmo andati. Questa sera parlerà a Vlad, e tutto sarà sistemato.

Ora, il mio cuore è assai leggero; ho preparato il mio baule, ho cantato delle ninne-nanne a me stessa e al bambino, e ho studiato il mio libro di frasi in tedesco. Tutto, in casa, sembra più allegro: persino Zsuzsanna è notevolmente migliorata e le è ritornato il colore. Dunya ed io abbiamo ripreso tanto coraggio che abbiamo portato un piccolo materasso per lei nella camera di Zsuzsanna; la sua presenza e l’aglio alla finestra dovrebbero essere sufficienti a tenere a bada ogni tipo di male.