Il diario di Arkady Tsepesh
15 aprile. È molto tardi, e Mary è già addormentata. Ho acceso un fuoco nel salotto ovest e, mentre scrivo, guardo le fiamme. Due volte mi sono alzato e ho cercato di gettare nelle fiamme la lettera dettata da V.; per due volte mi sono scoperto incapace di farlo, afferrato da quel dolore alla testa oramai familiare seguito dalla sensazione che, bruciando quel documento segretamente e disonestamente, avrei, di fatto, gettato nelle fiamme i miei obblighi familiari.
Io sono un uomo onesto. Disprezzo l’inganno, ma non vedo alternativa se devo fare contento V. e ottenere che giustizia sia fatta. Né so, con esattezza, cosa dire a Mary; lei sembra così felice, così sollevata alla prospettiva di andare a Vienna. Confesso che provo lo stesso sentimento. Ma ora quella porta è chiusa, a meno che non sfidi apertamente i desideri dello zio. A meno che non rompa per sempre con la famiglia.
Per quanto io ami lo zio, per quanto mi senta in debito verso di lui, riesco appena a sopportare, adesso, di camminare all’interno delle mura del castello. La mia tormentata agitazione non percepisce più una grande e avita casa di pietra, ma un antico mostro ghignante, in attesa di divorarmi: ogni volta che entro, le taglienti punte di metallo della grande porta diventano delle zanne affilate come rasoi, la soglia delle fauci spalancate, gli oscuri e soffocanti corridoi un lungo esofago.
Quando, questa sera al tramonto, ho oltrepassato quelle mascelle affamate, con la pistola di papà alla cintura come protezione, tutto ciò a cui riuscivo a pensare era Jeffries. Dove aveva incontrato il suo destino? Nelle camere degli ospiti? Nella zona dei domestici? O era stato fatto sparire all’esterno, per essere scorticato vivo negli oscuri recessi della inquietante foresta?
Entrai osservando le mura, i pavimenti, il mobilio, in cerca di sangue. Mentre salivo le scale, immaginai la testa di Jeffries, che scendeva rimbalzando per tutta la loro lunghezza, per arrivare fino a me.
«Voi siete un Impalatore vero? Uno degli uomini-lupo?»
Lentamente salii le scale e mi feci strada verso l’ufficio di papà, lottando contro un ritorno del delirio che mi aveva posseduto nella foresta cosparsa di crani. Non lavorai: non potevo. Né mi permisi di pensare, poiché ciò mi sembrò un pericoloso passatempo. Mi limitai a sedere sulla sedia di papà e lottai contro quel freddo terrore che minacciava di sopraffarmi, lottai per mantenere la ragione e, quando ebbi un vago grado di controllo, mi alzai e mi diressi verso lo studio dello zio.
Bussai e, quando V. rispose, entrai.
Tutto aveva lo stesso aspetto di prima. Lo zio sedeva nella sua sedia davanti a un fuoco vivo, che rendeva la stanza calda e accogliente. Lo slivovitz non era ancora stato toccato, ed era sempre sul tavolino, nella caraffa di cristallo lavorato, in cui ogni sfaccettatura tremava per la luce del fuoco. Soltanto V. ed io eravamo cambiati: lui aveva perso vent’anni; io li avevo acquistati.
Impossibile! Impossibile: sto proprio impazzendo!
«Arkady!», disse con calore, voltandosi verso di me con un sorriso, che scomparve all’improvviso e fu sostituito da un’espressione di preoccupazione. Il grigio scuro alle sue tempie si stava espandendo, tanto che i capelli ai lati erano quasi sale e pepe, e la sua carnagione, sebbene ancora molto chiara a causa della sua avversione per il sole splendente, risplendeva di una robusta buona salute. «Come sei pallido! Siediti».
Fece un gesto verso la sedia accanto a lui. Mi sedetti, cercando di nascondere il mio nervosismo di fronte a quell’ultimo guizzo di ringiovanimento. Lui socchiuse gli occhi, osservandomi attentamente, poi mi versò un bicchiere di slivovitz sorridendo di nuovo e disse:
«La tua graziosa moglie ha mandato un messaggero per dirci che eri malato. Spero che ti senta meglio. Ecco, bevi. Metterà un po’ di colore sulle tue guance».
Presi il bicchiere che mi veniva offerto e bevvi. Non potei nascondere il fatto che mi tremavano le mani, poiché lo slivoviz si versò dal calice che reggevo in modo malfermo e profumò l’aria. Lo posai con un certo rumore, capovolgendo quasi il bicchiere per la mia goffa agitazione.
Vlad guardò tutto con un sorrisetto e la stessa compresa attenzione.
«Va meglio?», mi chiese.
«Sì», ansimai, espirando altri profumati effluvi di slivovitz, e combattendo la necessità di tossire per la sensazione bruciante nella gola. «Sì, sto molto meglio. Il dottore ha detto che era una febbre cerebrale ma, adesso, sto meglio».
«Ne è sicuro? Sei guarito completamente?».
Distolsi gli occhi e fissai il fuoco. La stanza sembrò improvvisamente soffocante, eccessivamente calda.
«Sì. Completamente. Tuttavia, lui e Mary sono ancora piuttosto preoccupati. Il dottore dice che ho bisogno di una vacanza, e Mary ha suggerito di passare qualche tempo a Vienna. Con il tuo permesso, naturalmente…».
«No», disse V.
La mia bocca si aprì e sussultai leggermente. Stupito, incapace di valutare quello che avevo appena udito, lo fissavo. Quasi mi aspettavo che si mettesse a ridere e che mi dicesse che stava semplicemente scherzando.
Non lo fece. Il suo tono era piatto, duro, neutro, la sua espressione impenetrabile.
«Mary è troppo vicina al parto; non può rischiare di viaggiare ulteriormente. Inoltre il bambino dovrebbe nascere qui nella sua casa avita, non in qualche albergo straniero».
«Ma…».
«Lei ha bisogno di te, Arkady. Non puoi andare senza di lei, e anch’io ho bisogno di te. Oggi infatti dobbiamo scrivere una lettera a un avvocato a Londra per affittare una proprietà adatta a noi. Il tempo è poco. Non posso aspettare ancora».
«Io…».
«C’è dell’altro; ci sono degli ospiti che arriveranno presto a Bistritz. Dobbiamo scrivere un’altra lettera e farla spedire a Laszlo domani. Ci sono molti, molti dettagli di cui occuparsi, Arkady, e io penso che avevi ragione quando, precedentemente, hai detto che la migliore cura per il tuo dolore è il lavoro. Allora, adesso lavoriamo. Ma io ti prometto… avrai la tua vacanza con Mary e il bambino. In Inghilterra. La prenderemo tutti insieme».
«Io non posso restare qui», dissi, con la voce che tremava tanto quanto la mano che alzai alla fronte. «Dio santo, non posso restare… Non posso tollerarlo ancora! Ho trovato… ho trovato la testa di Jeffries sepolta nella foresta».
E sollevai l’altra mano tremante alla fronte e chinai il viso, fissando in basso attraverso le dita malferme.
Seguì un lungo silenzio, durante il quale non riuscii a sollevare la testa. Né lo sguardo, quando, finalmente V. parlò, ma udii la malinconia nel suo tono calmo:
«Ne sei sicuro?»
«Come potrei sbagliarmi su una cosa tanto orribile, così come potrei sbagliarmi sul fatto che Laszlo ha preso l’anello di Jeffries?», dissi bruscamente.
«Capisco», mormorò piano, ma io vidi che non comprendeva affatto, che non ci credeva. «Allora, non fa meraviglia che tu sia turbato. Ce n’è abbastanza per far impazzire chiunque».
«Sì», bisbigliai, premendo forte le dita contro la fronte, sperando che cessassero un po’ di tremare.
«Ciò è terribile naturalmente». Fece una pausa. «Com’è, allora, che ti è accaduto di… di fare questa orribile scoperta? Hai visto con i tuoi occhi qualcuno che la seppelliva…?»
«No».
Incerto sul come spiegare che ero stato condotto nella foresta da un fantasma, e timoroso che avrei ulteriormente confermato i sospetti di V. sulla mia instabilità mentale, abbassai le mani e alzai gli occhi verso di lui.
E vidi seduto nella sedia, con le gambe corte e sottili che ciondolavano a circa quindici centimetri dal pavimento, e le mani che afferravano i braccioli nella solita maniera di V., il mio defunto fratello, Stefan.
Nel caldo chiarore di un arancione autunnale, la ferita che si apriva nella sua gola era chiaramente visibile, ed io potei vedere che il sangue che gocciolava da essa sulla stoffa bianca della camicia lacerata e sporca era color vermiglio, fresco, acceso. Mentre fissavo con la bocca aperta, ammutolito, il sorriso da monello di Stefan si allargò in un’espressione di divertimento puramente malevolo.