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Chiusi gli occhi e li coprii con le mani, incapace di parlare.

Al tocco di una mano sulla manica, sussultai nella sedia e guardai in su con paura… negli occhi verde scuro dello zio. Per qualche rapidissimo secondo, mentre aprivo gli occhi, immaginai di vedere sulle sue labbra un accenno dello stesso cattivo sorriso ammiccante di Stefan. Battei le palpebre e vidi che i suoi lineamenti erano composti in un’espressione di estrema preoccupazione, di estrema rassicurazione.

«Arkady», disse V., con una voce cantilenante, «ho sbagliato a continuare il discorso. È naturale che tu sia turbato per rispondere, ora, a domande su questo argomento. Non è necessario discutere di tali cose adesso».

Mi chinai in avanti sull’orlo della sedia, incapace di capire la sua calma di fronte a quella macabra rivelazione, incapace di capire qualunque cosa tranne che ero sull’orlo della follia, e compresi che ci sarebbe voluto ben poco per spingermi in quel precipizio.

«Non posso restare! Non capisci, zio? Qualcuno qui al castello…».

«Laszlo, vuoi dire», m’interruppe, con un tono che era gentile ed estremamente rassicurante, estremamente scettico.

«Sì!», esclamai, arrossendo di rabbia. «Ebbene ,sì, Laszlo! Ha ucciso i tuoi ospiti. Non posso restare con mia moglie — e il bambino — accanto a un mostro capace di…».

Mi interruppi quando mi ricordai che Laszlo aveva vissuto al castello soltanto due anni, e fui incapace di soffocare il pensiero: così tanti crani! Così tanti crani! Troppi per un uomo solo in due anni…

Il pensiero seguente fu oscurato da un dolore ormai familiare, opprimente, alle tempie: lo stesso che avevo sentito quando Masika aveva cercato di farmi partecipe di un segreto, quando Mary mi aveva affrontato sulle scale riguardo a V. e a Zsuzsa. Sollevai le mani per strofinarle, chiedendomi se quella sofferenza fosse semplicemente il risultato di una stanchezza nervosa o se aveva una causa più sinistra.

«Arkady», disse V., con un tono pacato, malinconico e tanto sincero come non ho mai udito nessun altro. «Mi vuoi bene?».

Ora la sua voce non era nient’altro se non puro e forte desiderio. Sembrò rimpicciolirsi sulla sedia, per diventare un vecchio patetico e curvo. Il Principe imperioso era sparito. Vidi soltanto mio padre, logoro e piegato da decenni di perdite e lutti. Lui mi guardò con aria supplichevole, con occhi sinceri e belli, scevri da tutta la malia e dal potere, pieni di vero e semplice bisogno; gli occhi che avevano pianto su mio padre nella bara.

Fui sorpreso e sinceramente toccato, nonostante la mia estrema agitazione. Balbettai:

«Beh… beh, sì, zio. Naturalmente, ti amo profondamente. Spero che non ne dubiti».

«E hai fiducia in me?».

Si raddrizzò un po’ ; la sua voce diventava più forte, un po’ più fiduciosa, mentre ritornava il Principe.

C’era qualcosa di così ipnoticamente calmo nella sua condotta, che io mi calmai come un cane sotto la mano del suo amato padrone.

Sapevo che mi considerava completamente pazzo. In quel momento pensai che avesse ragione, e bramavo il suo aiuto.

«Sì, naturalmente».

«Allora stai tranquillo che provvederò a risolvere la questione», disse, e la fiducia mi ritornò completamente. «Abbi fiducia che farò in modo che nessun male accada a te o alla tua famiglia. Devi credermi, Arkady: morirei prima di permettere che ti succeda qualcosa di male. Ti terrò al sicuro: lo giuro sul nome della nostra famiglia! Ne hai passate abbastanza con la morte di tuo padre e la tua stessa malattia, e presto avrai un bambino. Sei turbato e hai bisogno di riposo; hai avuto due terribili shock. Non hai bisogno di altre preoccupazioni. Per favore. Permettimi di toglierti questo terribile fardello».

Mi accarezzò la mano; la sua era fredda, ma io mi rilassai ulteriormente al suo tocco.

«Rimani con me, Arkady. Per il bene di tua moglie, per quello del bambino, per il mio. Ora mettiamoci a lavorare e vedrai che è la cura migliore per le tue preoccupazioni. Non parliamo più di partire».

Che potevo fare? Che potevo dire? Lavorai con lui. Insieme, scrivemmo a un avvocato di Londra, un mio conoscente, chiedendo se avrebbe potuto rappresentare gli interessi di V. nel cercare una proprietà nell’area di Londra e, possibilmente, anche dei luoghi dove soggiornare. Scrissi anche, per suo conto, una lettera a una coppia appena sposata che stava viaggiando per l’Europa in luna di miele, che lui mi ordinò di dare a Laszlo nel lasciare il castello, in modo che la potesse spedire a Bistritz il giorno seguente.

Tutto sembrava molto ragionevole quando ero con lo zio a scrivere le lettere ma, quando me ne andai e scesi la lunga scala a chiocciola che conduceva alla zona dei domestici, dove soltanto Laszlo dormiva, ritornai improvvisamente in me.

Che idiozia era questa, di chiedere a Laszlo di impostare una lettera che avrebbe semplicemente portato nuove vittime? Lo zio poteva fidarsi di lui, ma io no, e nemmeno, pensai, riuscivo a sopportare l’idea di posare nuovamente gli occhi su di lui.

Il pensiero mi venne in mente in modo estremamente chiaro, per qualche ragione con la voce dello zio, come se lui avesse bisbigliato nelle mie orecchie.

“Devi andare tu stesso a Bistritz. Per il bene di noi tutti.”

Sì. Divenne lampante: potevo essere colpito dal dolore, potevo essere turbato, scosso, ma era venuto il tempo, per il bene della mia famiglia, di chiamare a raccolta le mie capacità e fare ciò che era meglio per tutti noi.

Così, feci scivolare la lettera in tasca e, invece di bussare alla porta di Laszlo, uscii e guidai rapidamente il calesse verso casa.

Una volta che fui tornato a casa, scrissi una lettera diversa alla sposa e allo sposo in luna di miele informandoli di una morte al castello e scusandomi del fatto che la loro visita doveva essere posticipata ad un momento imprecisato.

L’altra la butterò nel fuoco… se riesco a decidermi a farlo.

Spedirò la nuova lettera e quella indirizzata all’avvocato quando andrò a Bistritz domani… per raccontare alle autorità del luogo degli omicidi.

Capitolo ottavo

Il diario di Mary Windham Tsepesh

17 aprile. Il grande orologio nell’ingresso ha appena battuto le due, ma io ancora non riesco a dormire, nonostante Arkady abbia insistito perché bevessi un sorso di laudano. Lui stesso ne ha preso una grande quantità, essendo agitato quanto me, sebbene cercasse di nasconderlo nel tentativo di confortarmi del mio terrore. Tutto ciò è accaduto poco prima dell’una. Ora russa sonoramente, mentre io combatto contro una spiacevole sonnolenza indotta dalla droga, contro cui sono impotente. Essa raggiunge l’opposto dell’effetto desiderato: lotto per stare sveglia, poiché preferisco essere in possesso delle mie facoltà nei momenti critici.

Sono così spaventata! Scrivere è la sola cosa che mi calma in questi giorni. La mia speranza che avremmo presto lasciato la Transilvania è stata di breve durata. Arkady è ritornato molto tardi dall’aver parlato con Vlad ieri sera, e questa mattina non ha voluto fornire dettagli di quell’incontro ma ha detto soltanto che ci sarebbe voluto «ancora un po’ di tempo» prima che potessimo prendere le nostre vacanze.

So cosa significa. In “ancora un po’ di tempo”, io non sarò definitivamente più in grado di viaggiare. È già abbastanza rischioso com’è adesso. Ho potuto evincere dal comportamento sottomesso di Arkady che Vlad deve aver rifiutato la nostra richiesta e che hanno avuto un litigio, dopodiché il mio buon marito non si è risolto a dirmelo. Ha trascorso la giornata ad andare e tornare da Bistritz, poi si è recato direttamente al castello, ed è ritornato a casa molto tardi, dopo che mi ero ritirata.