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Le mie gambe forti, perfette!

La luce è così radiosa, così dorata, così amaramente bella, che la gola mi duole per lacrime che non verso. Questa è l’ultima alba che vedrò.

Con un particolare sforzo di volontà, ho trovato la forza di scrivere. Sono decisa a lasciare la testimonianza del mio passaggio.

Ma per chi?

Sto morendo. So che i miei polmoni cesseranno di respirare, e il mio cuore di battere; eppure sono certa che la fine a cui vado incontro non è veramente morte, né l’esistenza verso la quale mi avvio è veramente vita. Poiché io so tutto quello che lui sa, e la mia malinconia al pensiero di abbandonare questa breve, infelice e menomata esistenza, è moderata da un crescente timore, una crescente gioia: il mio sudario sarà una crisalide, da cui emergerò bella, perfetta, immortale.

La nostra comunione è completa. La notte scorsa sapevo quando Dunya sarebbe caduta sotto il suo incantesimo, sapevo il momento preciso in cui sarebbe arrivato. Mi ero liberata dalla costrizione della mia camicia da notte e lo attendevo presso la finestra, dentro il raggio del chiarore lunare, sollevando le braccia davanti ai miei occhi meravigliati, spalancati, ingannati dalla radiosità di quella luce argentea sulla pelle nuda: già vedevo delle scintille rosate e d’oro, l’inizio di quel glorioso fuoco opalescente nella mia propria carne.

Uscendo da quella magnifica lucentezza, lui mi apparve accanto. Non dissi nulla, ma sollevai i miei lunghi e pesanti capelli dal collo e glielo offrii, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che vi si sarebbe nutrito. Si avvolse strettamente i miei capelli intorno alla mano e tirò la mia testa all’indietro, stringendo con l’altra mano la mia vita alla sua.

Di nuovo i suoi denti trovarono le minuscole e tenere ferite; io rabbrividii mentre affondavano rapidamente, abilmente, nella mia carne, quindi rabbrividii nuovamente quando la sua lingua cominciò a muoversi, dapprima con rapidità, per incoraggiare il flusso, poi più lentamente, con voluttà, ma suggendo forte, con una tale pressione che gemetti per il dolore.

Nonostante il disagio, non lottai, ma mi lasciai cadere immediatamente in quella profonda, deliziosa condizione di incoscienza, con il cuore che batteva di eccitazione al sapere (suo ed ora mio) che si sarebbe nutrito spietatamente, oltre la sazietà, che mi avrebbe nuovamente portato sull’orlo di quel precipizio puramente sensuale al confine con la morte… e poi oltre, attraverso il grande abisso.

Sentii anche il suo piacere, il piacere che avevo conosciuto io stessa due notti prima, l’estasi dell’estremo potere sulla vita e sulla morte di un altro, dell’estrema seduzione, del saziarsi della pura fame animale: della selvaggia e sanguinaria gioia della caccia e dell’uccisione.

E lui conobbe il mio rapimento e anche, nascosto, il mio lieve e amaro rimpianto nel lasciare questa vita senza averne assaporato pienamente i piaceri.

Fu allora che si fermò, avendo bevuto solo per poco tempo (ed ora, lo so, a sufficienza). Mi lagnai quando si ritrasse, ma ritornai silenziosa quando sollevò le labbra rosse e gocciolanti alle mie orecchie e bisbigliò:

«Zsuzsa…».

Udii i mondi contenuti in quell’unica parola. Udii la domanda che vi si celava e, nel mio sospiro, lui udì il mio consenso.

Mi lasciò andare i capelli; oscillarono, morbidi e liberi contro la mia schiena nuda. La mano alla vita allentò la presa ed io barcollai all’indietro, lottando per restare in equilibrio, ma non ancora debole, non ancora prosciugata della forza.

Eppure aveva bevuto abbastanza per essere fantasticamente potente.

Con la mano che aveva tenuto i miei capelli, si aprì i vestiti che lo separavano da me, non liberandosi completamente, ma mostrando di nuovo l’ampio petto, senza cicatrici, senza alcun segno della ferita che ci univa.

Mostrando molto, molto di più.

Oh, io ho vissuto una vita protetta, ma ho letto della petit mort, la piccola morte, e mi sono meravigliata del termine. Ho riso quando ho toccato lo strumento della mia esecuzione, diafano, freddo, liscio e duro come il marmo sotto le mie dita.

Rabbrividendo al mio tocco, leggero come quello di un ragno, si è unito a me ridendo piano, poiché vedevamo con la nostra mente la stessa visione, che io evocavo con i miei pensieri dai suoi antichi ricordi.

La foresta dei morti impalati, quattro secoli prima. Le mogli adultere e non pentite che aveva condannato a morte col suo potere come voievod. Come avevano gridato! Come avevano lottato quando erano state costrette a stare giù sulla schiena, contro il terreno primaverile coperto di fango fuori del castello mentre il sorridente e approvante Principe guardava. Per ogni donna c’erano cinque rumini grandi e grossi che la tenevano giù come una stella: due per inchiodare il busto e le braccia che si contorcevano, e altri due per afferrare ognuno un polpaccio scalciante onde tenere aperte le gambe.

E soltanto uno per conficcare il palo di pino (lungo dieci piedi, più largo del braccio di un uomo forte, e generosamente oliato, appuntito, per permettere una rapida entrata ma con la punta arrotondata abbastanza da far sì che la morte non fosse felicemente rapida) tra quelle cosce di puttana.

Non c’è nessuno che egli odi più dei traditori; nessuno che ami più di chi gli è leale.

Oh, che grida, mentre la giustizia penetrava le traditrici! Oh, le grida soffocate mentre i pali venivano issati in alto, fissati al terreno, e al peso del corpo era lasciato il compito di punire ancora più profondamente! Gli uomini che osavano tradire il voievod andavano incontro allo stesso destino in modo similmente metaforico, penetrati attraverso l’ano. A volte i condannati erano sospesi per giorni, durante i quali i pali fuoriuscivano dagli stomachi, o dalle gole, o, talvolta, più elegantemente, dalle bocche aperte, rese immobili dalla morte.

L’immagine lo riempì di un fuoco improvviso, che poi mi inghiottì e mi consumò. In quel momento, non volevo altro che essere penetrata in modo così totale; aprirmi e sentirlo emergere come un calice in fiore tra i petali delle mie labbra aperte.

La sua mano era immobile sulla mia schiena nuda all’altezza delle reni, ma lieve; io mi strinsi contro di lui, ansiosa, impaziente, misi le braccia intorno a lui, lo supplicai, lo pregai di prendermi: ora, ora, ora!

Lui non si mosse. Le sue labbra, scure del mio sangue, erano incurvate con aria astuta all’insù, e le palpebre pesanti abbassate su quegli occhi brillanti e seducenti. Sembrava giovane e bello come Kasha…; no, anche più giovane, e più innocentemente bello: era l’Arcangelo, il Portatore di Luce prima della Caduta. Scosse la testa, ed io compresi.

Non mi avrebbe preso. Io ero stata fino ad allora la seduttrice; io lo avevo chiamato a me. Lui aveva rotto il Patto solo per la mia insistenza, a causa del mio bisogno, e se doveva rompere dei tabù mortali, familiari, per consumare il nostro matrimonio nella carne, anche questo avrebbe dovuto essere compito mio. Io avrei dovuto prendere lui.

Rimase immobile, una statua di marmo mentre io chiudevo le dita dietro al suo collo muscoloso e mi issavo come una delle adultere condannate, alzando il mio busto dapprima troppo in alto, poi scendendo lentamente finché scoprii la posizione migliore.

Lo circondai con le gambe e, con un rapido e violento movimento, mi impalai. Impalai me stessa. Ancora e ancora…

Lui mi afferrò per i fianchi: le sue unghie, come coltelli, mi tagliarono la carne, e me lo spinse dentro finché non mi poté riempire oltre. Con una crudeltà che mi terrorizzò, tormentò e deliziò, mi lacerò il collo con i denti, trasformando le punture di spillo in ferite zampillanti. Il fiume caldo del sangue traboccava dalla sua bocca affamata e cadeva sul mio seno, sul mio stomaco, scendendo giù fin dove noi due eravamo uniti.