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L’albergatore è un uomo piacevole, con il viso rotondo, pesante, ma dai lineamenti da falco che indicano i nostri lontani legami di sangue; mi ha riconosciuto immediatamente, poiché io e Mary avevamo trascorso una notte gratis nel suo albergo, e mi ha accolto caldamente, sebbene fosse curioso riguardo al motivo per cui fossi venuto io e non Laszlo.

Mentre gli davo la lettera, ho mormorato una vaga risposta sul fatto che avevo altri affari in città. Lui mi ha ringraziato quando l’ha ricevuta, dicendo che il momento non poteva essere migliore, poiché gli ospiti dovevano arrivare un po’ più tardi quel pomeriggio. Sorrisi appena sapendo che pensava contenesse le istruzioni per incontrare la carrozza di Laszlo.

L’albergatore insistette nel servirmi il pranzo “della casa” e, dopo, portai la lettera per l’avvocato all’ufficio postale. Tutto era andato senza intoppi, ed io trassi un enorme conforto nel sapere che gli sposini sarebbero stati protetti dal male. Restava soltanto una cosa.

Eppure, quando entrai al posto di polizia e mi avvicinai al ragazzo alto in uniforme dietro la prima lunga scrivania di legno, cominciai a provare una certa trepidazione, poiché non c’era alcuna prova concreta che legasse Laszlo ai delitti, tranne il fatto che aveva sgraffignato alcune delle cose di Jeffries e aveva mentito circa una gallina. Era la mia parola contro la sua. E come potevo provare la non colpevolezza dello zio in tutto ciò? Come potevo provare che io non ero pazzo e non ero l’assassino? Dopotutto, sapevo dove si trovavano i teschi…

Improvvisamente perduto, fissai i manifesti sul muro accanto a lui: delle riproduzioni artistiche di fuggiaschi, criminali, pazzi.

Osservai quei visi duri, torvi, in cerca di somiglianze, di qualche particolarità nella bocca o nel luccichio degli occhi che indicassero un assassino, un uomo impazzito: qualche chiaro segno che avevo visto in precedenza sul volto di Laszlo.

«Signore?», chiese il giovane jandarm.

Aveva i capelli chiari e mi scrutava attraverso gli occhiali rotondi con degli occhi di un blu stupefacente. Il suo tono era glaciale, apertamente condiscendente, a dispetto del fatto che il mio vestito e il mio atteggiamento mi indicassero come nobile, istruito e ricco. Poteva appartenere a una classe inferiore, essere trasandato e povero, con un’istruzione inferiore e un innato risentimento verso la mia influenza e ricchezza, ma era un sassone: questo era ciò che lo rendeva il conquistatore di un tempo e che rendeva me il conquistato. Era il suo unico vantaggio, e non voleva che sfuggisse alla mia attenzione. C’era anche della noia nel suo tono; l’ennui di uno che ne ha viste così tante che non esistono più sorprese per lui.

Quando distolsi lo sguardo dai manifesti, vidi passare due ufficiali in uniforme, entrambi a fianco di una donna tzigana molto ubriaca e scalza, che sarebbe caduta se non l’avessero tenuta saldamente per le braccia.

Arrossii e distolsi gli occhi mentre passavano, poiché la camicia della donna si era lacerata al colletto e si apriva fino alla vita, rivelando al di sotto parecchi fili di perle a poco prezzo ma nessun altro indumento. I capelli neri erano sfuggiti dal fazzoletto, che era scivolato giù e pendeva, in procinto di cadere. Sul suo viso c’erano sangue e sporcizia, come se avesse combattuto nel fango e, sebbene riuscisse a malapena a camminare, continuava a mugugnare e a scagliarsi con violenza contro gli uomini che la sostenevano, come se volesse morderli.

Gli ufficiali tiravano indietro i loro volti abbastanza rapidamente, ma ridevano con disprezzo per mostrare che non avevano paura. Mentre oltrepassavano me e il loro collega seduto, uno disse, sorridendo:

«Dice che è posseduta dallo spirito di un lupo. È spirito, certo: vino a buon mercato».

I tre uomini risero, ma la donna faceva resistenza, riluttante a procedere, e sollevò un braccio che, oscillando, puntò direttamente verso di me.

«Lui non ride; lui capisce» sibilò. «Lui è uno di noi!».

Mi gelai: ero stato scoperto.

Ridendo, i due ufficiali la trascinarono via; il giovane sassone dietro alla scrivania mi guardò con un sorrisetto condiscendente ma usò il tono e l’appellativo più educati possibile mentre faceva un gesto per indicare la sporca sedia di legno dall’altra parte della scrivania.

«Prego, sedete Dumneavoastra….

«Tsepesh», risposi rigidamente, e lanciai alla sedia sudicia uno sguardo incerto. Sembrava che qualcuno vi avesse di recente sputato sopra, e quando, infine, mi ci sedetti, provai una sensazione di leggera umidità.

«Che cosa desiderate denunciare, Domnule Tsepesh?», pronunciò il nome «Tzepezh».

Omicidi, volevo dirgli. Quanti? Non lo so. Troppi perché li possa contare… Invece, gli dissi:

«Vorrei parlare con il Conestabile, per favore».

Il suo sorriso teso si allargò un po’ ma una leggera durezza comparve nel suo sguardo.

«Ah! Sono certo che il Conestabile vorrebbe parlare con voi, mio buon signore, ma in questo momento è occupato in un affare molto urgente. Vi assicuro che vi posso assistere in qualsiasi cosa voi…».

«Lo devo vedere, se è possibile…».

«Vi assicuro che non lo è».

«Capisco».

Mi alzai, mi aggiustai i vestiti, poi tesi la mano.

«Bene. Allora, buongiorno».

All’apparenza leggermente sorpreso dalla mia precipitazione, si alzò e mi strinse la mano, poi prese di nascosto la corona d’oro che vi si trovava e, con il più abile e ben esercitato dei movimenti che io abbia mai visto, la fece scivolare nella tasca.

Mi voltai e finsi di muovermi verso la porta.

«Un momento, signore», disse, ancora in piedi dietro la scrivania. «C’è una piccola possibilità che il Conestabile abbia finito con i suoi affari e sia libero. Vado a controllare, se permettete».

Lo guardai.

«Prego», gli dissi.

Entro un minuto, ritornò e disse, con un atteggiamento considerevolmente più cordiale:

«Il Conestabile vi vedrà adesso».

Lo seguii lungo uno stretto corridoio di porte chiuse fino a una stanza all’estremità, ed entrai quando tenne la porta aperta per me, con quella rigida formalità teutonica di cui a noi Transilvani piace così tanto fare la parodia nelle nostre barzellette. Quando ebbi varcato la soglia, la porta si chiuse silenziosamente dietro di me.

L’uomo dietro la scrivania era un compatriota, più basso e pesante del suo collega più giovane.

«Domnule Tsepesh», disse a voce bassa. La sua voce e il suo atteggiamento erano meno formali, molto più calorosi di quelli del giovane sassone. Di fatto, c’era una strana familiarità nel suo tono, e pensai di distinguere nei suoi occhi un lampo che indicasse che mi riconosceva; annuì debolmente tra sé, mentre mi esaminava con lo sguardo. Eppure, ero certo di non averlo mai visto prima. Doveva essere della stessa età di papà: aveva una testa di ondulati capelli d’argento, ma le sopracciglia e i baffi arricciati erano quasi interamente neri, cosa che conferiva al suo viso un’apparenza severa e drammatica. «Io sono il Conestabile Florescu. Entrate. Vi stavo aspettando».

Quella frase assurda mi imbarazzò per un momento — la sua attesa non poteva essere durata più di qualche secondo — ma avanzai e gli strinsi la mano. La sua stretta era calda e ferma, e mi studiò con una certa emozione negli occhi scuri che notai, di tanto in tanto, durante la nostra conversazione, nella sua espressione, nella sua voce, e nel suo atteggiarsi. Mentre ero con lui, cercai di darle un nome e non ci riuscii: la sua identità mi è sfuggita finora, mentre scrivo queste parole.