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Pietà. Mi guardava con pietà.

Florescu mi fece cenno di sedere (questa volta su una sedia imbottita e molto più pulita di quella dell’ufficio esterno), cosa che io feci. Anche lui si sedette, incrociò le mani sulla scrivania, poi si chinò in avanti, fissandomi con uno sguardo che era, del tutto stranamente, non professionale: gentile, quasi paterno, ma anche preoccupato, pensieroso, prudente.

«Allora», disse con un’inconfondibile riluttanza, temperata dalla rassegnazione. «Forse dovrei lasciarvi dire perché siete venuto».

Sebbene avessi ripetuto il mio piccolo discorso parecchie volte durante il percorso, le parole che avevo scelto mi abbandonarono in quell’istante. Balbettai:

«È… è una faccenda molto delicata. Dovrei presentarmi. Il mio prozio è Vlad Tsepesh…».

Florescu fece un solo, solenne cenno.

«Il Principe. Sì, ne ho sentito parlare».

«Sono venuto qui, non tanto per fare delle accuse quanto per… dare con discrezione un aiuto a un’indagine. Il Principe si arrabbierebbe se sapesse che sono venuto qui; non voglio che ciò si rifletta su di lui, in alcun modo. Credo, però, che uno dei suoi servi sia colpevole di un crimine. Di fatto, di parecchi…».

«Che crimine sarebbe?», mi interruppe, ma il suo tono era calmo.

«Assassinio», risposi, ed emisi un lungo sospiro.

La sua risposta fu misurata, controllata, nient’affatto affrettata: la risposta decisi, di un uomo che ha udito tante orribili confessioni che nessuna lo può più scioccare. Non si ritrasse, non si tirò indietro, ma restò perfettamente immobile, con le mani intrecciate, facendo domande e osservandomi con la compostezza di un professore che fa un esame orale.

«E chi credete che abbia commesso questi omicidi?».

Ebbi la sensazione che fosse un attore, che recitasse un ruolo già provato e, al di sotto delle sue parole, percepii una sconcertante corrente nascosta di vere emozioni: pietà, dispiacere. Il desiderio di essere d’aiuto.

«Il cocchiere di mio zio», risposi. «Laszlo Szegely. Anche se, probabilmente, ha avuto qualcuno che lo ha aiutato».

«Perché fate una tale accusa?». Era di nuovo calmo, misurato. «Lo avete visto mentre commetteva quei delitti? Avete prove?»

«L’ho visto con alcuni oggetti che appartenevano al defunto, e con del sangue fresco su una manica che non era il suo, alcune ore dopo la scomparsa dell’uomo. Questa mattina presto, l’ho visto che lasciava il castello con un fagotto abbastanza grande da poter contenere un corpo». Mi fermai, rabbrividendo nel pensare alla forma quadrata del fagotto; se era il povero Jeffries, era stato già fatto a pezzi. «Forse, non è abbastanza per impiccarlo, ma la mia speranza era che se voi poteste svolgere delle indagini discrete, trovereste abbastanza prove per imprigionare l’assassino. Io non ho nient’altro, tranne il mio stesso istinto riguardo al carattere di quell’uomo. C’è qualcosa di… criminale in lui. Almeno, se poteste investigare su di lui…».

«Non c’è bisogno di farlo», disse bruscamente il Conestabile. Si curvò in avanti, il tono e lo sguardo estremamente seri. «Io vi posso raccontare di Laszlo Szegely. Se siete certo di voler sapere la verità sulla faccenda».

La sorpresa mi fece calare la voce fino a un bisbiglio.

«È naturale…».

Mi chinai in avanti, gli occhi spalancati, pronto a sentire.

«Szegely», disse Florescu e fece un debole sorrisetto che svanì con la rapidità con cui era apparso. «Di mestiere è un macellaio. Mai sposato, niente figli. Venne da noi da Budapest, perché sperava di sfuggire alle autorità di quel posto».

«Per un omicidio?», chiesi subito.

Scosse la testa d’argento.

«Furti nelle tombe».

«Lo ha fatto anche a Bistritz? L’avete preso?».

Il Conestabile annuì.

«Avreste dovuto metterlo dietro le sbarre e tenerlo lì», dissi, con una voce bassa, cattiva, che tremava. «Forse nei villaggi di montagna non ci sono abbastanza cadaveri per lui, perché ha cominciato a creare dei morti. Li ho trovati io stesso. La foresta è piena di teste sepolte».

Incapace di continuare, fissai, inorridito, le mie mani, pensando a Jeffries, e a tutti quei minuscoli, piccoli teschi.

Florescu ed io rimanemmo seduti in silenzio per un buon minuto; riuscivo a sentire su di me il suo sguardo, che mi compativa, che mi squadrava. Stava pensando. Lo udii che rovistava nella sua scrivania, che tirava fuori qualcosa. Udii un fiammifero che si accendeva, parecchie forti tirate, poi sentii l’odore del fumo e del fragrante tabacco da pipa.

Infine il Conestabile disse, molto debolmente, molto gentilmente:

«Domnule Tsepesh, voi assomigliate molto a vostro padre».

Alzai la testa, sorpreso.

Gli occhi di Florescu si addolcirono, ma non riuscì a sorridere.

«Lui venne qui, proprio come avete fatto voi, più di venticinque anni fa; oserei dire che non eravate ancora nato. Naturalmente, a quei tempi, non ero capo jandarm, ma lo ricordo perché era molto turbato e, naturalmente, perché io fui uno dei due scelti per ritornare con lui a cercare i corpi nella foresta».

Lo fissavo, ammutolito, incapace di comprendere. Laszlo aveva lavorato al castello solo due anni. Come era possibile…?

Il Conestabile rimase in silenzio affinché le sue parole facessero breccia, e poi aggiunse:

«Ma io fui l’unico uomo a ritornare a Bistritz. Sarebbe meglio per voi, domnule, se dimenticaste di aver mai visto quelle cose. Sarebbe meglio per entrambi».

Mi alzai offeso.

«Come potete dire una cosa simile, quando mia moglie, la mia famiglia, vivono vicino a un assassino?».

Florescu si limitò a guardarmi e tirò dalla sua pipa: la sua faccia divenne una maschera dagli occhi stretti, illeggibile.

«Che volete?», domandai infuriato. «Del denaro? Io sono ricco! Posso pagare più di chiunque altro vi abbia comprato!».

«Nessuno mi ha pagato», replicò con tranquillità, senza un’ombra di offesa. «Almeno, non con qualcosa di poco valore come il denaro. Però è vero; ho fatto in modo che Szegely riavesse la libertà soltanto due anni fa, dietro richiesta di qualcun altro».

«Chi?»

«Vostro padre».

Sospirai e mi lasciai cadere sulla sedia, troppo sbalordito e offeso per parlare, per protestare. Florescu continuò calmo da dietro un velo di fumo di pipa.

«Proprio come un giorno verrete voi, domnule Tsepesh, molto probabilmente dal mio successore, quando Laszlo morirà e voi dovrete fare i vostri accordi». Il suo tono divenne familiare, confidenziale. «Ora siete giovane e ci sono cose che ancora non capite. Ma le capirete. Ci sono delle volte che non è bene lottare contro l’inevitabile. Più lottate, più sarà difficile per voi. Per la vostra famiglia.

Forse un giorno vostro figlio verrà a far visita al mio successore, che andrà in quella stessa foresta. E porterà degli uomini, dei fucili, ma il risultato sarà lo stesso: soltanto un uomo ne emergerà, e quell’uomo vedrà che la sua promozione a questo ufficio si verificherà molto facilmente.

Io ho passato la mia vita a dispensare la giustizia, ma ci sono delle situazioni che vanno oltre il limite della legge… dell’uomo o di Dio. Io non tornerò in quella foresta. Non sono un uomo intelligente, ma imparo rapidamente quando è in gioco la mia vita».

Si fermò e, in quell’istante, cercai di parlare, ma lui ricominciò a parlare rapidamente.

«Non c’è niente che possiate fare, capite? Niente che noi possiamo fare». Si alzò e attraversò la stanza dalla scrivania alla porta; il suo tono divenne falso e forte, come se parlasse a beneficio di coloro che potevano essere in ascolto. «Adesso vi chiedo di andarvene. Sono solo sciocche dicerie questa faccenda di un assassino nella foresta. I contadini hanno raccontato queste stupide leggende per centinaia di anni. Tutti, alla polizia, lo sanno e, se voi ne parlate a chicchessia, rideranno se direte perché siete venuto.