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Tuo padre, per lungo tempo, ha creduto che Vlad possedesse del buono nel suo cuore ma, in verità, il Principe non conosce che il male. È come un vecchio lupo che ha commesso così tanti assassini da averne a noia, e deve trovare nuovi piaceri.

Distruggere l’innocenza è uno di essi. Ora gioca con te, come giocò con tuo padre quando era giovane, e con suo padre prima di lui. Questo svago è per lui sempre nuovo, poiché ne può godere soltanto una volta in una generazione. Ti dirà che ti ama, ma in realtà desidera soltanto corromperti, piegarti come fece con papà.

Con tutto il mio cuore, ti prego: fuggi da lui. Scappa prima che distrugga la tua anima.

Ma fai attenzione e sii saggio, e sappi che il fallimento ti può costare i tuoi cari. Papà cercò di fuggire e, come vendetta, gli furono presi tua madre e tuo fratello, Stefan. Ma io credo che ci sia ancora tempo per te, se sei astuto e cauto, e se capisci che Vlad non è degno di fiducia. Io crederò, fino al giorno della mia morte e oltre, che l’amore può vincere ogni sorta di male.

Ora devo finire in fretta, sebbene ci sia molto altro da dire, ma non posso restare nella casa di mia madre, per la sua sicurezza, quando il sole è tramontato. Devo andare.

Ti prego, fratello. Non essere tanto astuto da non poter pregare per te stesso.

Radu

Caddi nuovamente sul pavimento, sedendomi sulla fredda terra dura, lasciando che la lettera mi cadesse in grembo. Lo shock di entrambe le cose, la morte di Masika e il contenuto della lettera, mi diede la chiarezza di un pazzo; per la prima volta vidi come i pezzi si incastravano strettamente. Tutti quei teschi, l’insolenza di Laszlo, le storie dei contadini che V. era un mostro assetato di sangue (naturalmente, non esistevano cose come i Vampiri, ma non presi l’uso da parte di Radu della parola strigoi, in senso letterale, dato che ciò avrebbe spiegato l’origine della leggenda), la furia di V. per il fatto che potessi interferire con i suoi ospiti, la sua insistenza nel non raccontare alle autorità…

Non poteva che esserci una sola conclusione. V. era un assassino, e mio padre suo complice, entrambi sofferenti di quella follia familiare che aveva cominciato a infettare anche me. Gridai al pensiero che anch’io ero destinato a sprofondare in quella pazzia, che le mie mani sarebbero state un giorno macchiate di sangue.

Siete un Impalatore? Uno degli uomini-lupo?

«No», bisbigliai. «No…».

Mi rimisi in piedi a fatica, ficcando la lettera nel mio panciotto, e mi arrampicai di nuovo sul calesse, ansioso di allontanarmi da quel villaggio misteriosamente deserto. Arrivai al castello dopo poco, sebbene fosse, in quel momento, passata la mezzanotte.

Nervoso, sudando nonostante il freddo della notte, mi diressi senza indugio alla porta dello studio di V., con la pistola nascosta sotto il panciotto. Bussai: V. chiese chi fosse come sua abitudine, e io risposi secondo il solito.

«Arkady!», esclamò giovialmente, dall’altra parte del pesante legno. «Nipote, vieni!».

Misi la mano sull’ottone lucidato della maniglia e girai.

Un lampo d’argento. Mio padre che abbassa il coltello, tagliando la mia tenera carne. E dietro di me, un trono…

Il dolore cancellò l’immagine. Strinsi gli occhi finché se ne andò…

Li riaprii per vedere la familiare figura di V. nel suo studio: una vista che non sarebbe mai stata, che non avrebbe potuto mai sembrare esattamente la stessa. Come sempre, c’era un fuoco acceso nel camino, e la stanza sapeva di rinchiuso ed era spiacevolmente calda. Mi passai una mano sulla fronte e la tolsi che era bagnata, poi chiusi la porta dietro di me.

V. sedeva sulla sua sedia, con le mani sui braccioli, ma questa volta non mi salutò; di fatto, non sembrò nemmeno alzare lo sguardo, ma tenne la sua attenzione fissa sul fuoco scoppiettante. Accanto al suo gomito, sul tavolino, c’era ancora la caraffa scintillante di slivovitz. Con riluttanza spostai lo sguardo da essa a V., che fissava dritto davanti a sé nelle fiamme scoppiettanti, con espressione immobile e illeggibile come pietra.

Era ancora giovane come l’ultima volta che l’avevo visto: un uomo di cinquant’anni, invece che ottanta. Eppure non potevo permettermi di reagire, di essere turbato o spaventato da questo chiaro segno della mia stessa incipiente pazzia; il problema in questione era molto più urgente.

«Zio», dissi tranquillamente. La questione richiedeva un tono stridulo, agitato ma il silenzio imperante nella stanza mi riempì di una improvvisa riluttanza a romperlo. «Mi dispiace di disturbarti ma c’è una questione della massima urgenza che devo discutere».

V. non diede segno di aver udito; i suoi occhi non si mossero mai dall’oggetto della sua attenzione. Questo comportamento era talmente strano da parte sua da essere snervante, ma io mi costrinsi a continuare:

«Ha a che fare con la terribile scoperta che ho fatto nella foresta».

Parlò, fissando ancora nelle fiamme. La sua voce era bassa e mite ma aveva un’affabilità sinistra, di quel tipo che si sente nel profondo e mortale ringhio di un cane proprio prima che attacchi.

«Tu mi tradiresti».

«Cosa?», bisbigliai.

Il mio battito aumentò a ciò che presi per un’ammissione di colpa.

Si girò bruscamente nella sedia, come un serpente, per fronteggiarmi con gli occhi infiammati dai riflessi della luce del fuoco; l’espressione pietrificata si era ora trasformata in rabbia assassina.

«Tu mi tradiresti! Dove sono le lettere?».

Rimasi a bocca aperta, sbalordito fino ad ammutolire per la sua furia esplosiva, sbalordito che lui sapesse.

«Bugiardo!», gridò, con tale forza che sapevo che il grido si sarebbe udito per tutto il castello. Le parole sembravano sgorgare da lui, da una fonte di odio che correva così profonda da farlo rabbrividire mentre gridava. «Ingannatore! So che non hai dato le lettere a Laszlo, come ti avevo chiesto!».

La luce del fuoco scintillò, riflettendo gli spruzzi di saliva che accompagnavano le sue parole come veleno.

La sua rabbia era una cosa terribile, ma per il suo bene, per il bene di Mary, per il bene di noi tutti, non potevo più permettermi in sua presenza, di tremare come un bambino. I morti nella foresta non potevano più essere ignorati. Se lui li aveva uccisi, caro zio o meno, pazzo o no, doveva essere fermato.

Mi raddrizzai, sollevai il mento, e non permisi alla mia voce di tremare quando dissi:

«Io stesso ho portato le lettere a Bistritz».

«E le hai impostate entrambe? Non mentirmi, Arkady! Ti avverto: io non tratto teneramente i bugiardi!».

Per un momento considerai se sarebbe stato più semplice mentire, e persuaderlo con l’inganno, ma avrebbe ben presto saputo la verità, quando i suoi ospiti non sarebbero arrivati.

«Ho impostato la lettera per l’avvocato», ammisi. «Ma la lettera per gli ospiti…».

«L’hai distrutta!».

Senza vacillare, lo guardai negli occhi.

«Sì».

Si voltò con un lungo sibilo, con la furia che gli ribolliva negli occhi mentre fissava nuovamente il fuoco.

«Zio», dissi, con gentile fermezza, «ho fatto così perché sono enormemente preoccupato per il tuo bene, per quello di Mary e di Zsuzsa. Per quello del bambino. Non permetterò che la mia famiglia viva con… con tali orrori che la circondano».