Выбрать главу

Abbi fiducia in me, disse. Non ti accadrà niente di male…

L’argento brillò in un luccicante arco che si abbassava dal suo braccio sollevato alla mia carne scoperta. Gridai, spaventato dal dolore.

Al tocco di una mano fredda sulla spalla, mi svegliai ansimando, per ritrovarmi a fissare dentro due bianchi occhi di lupo.

«Arkady», disse mio zio severamente. «Svegliati! Stai sognando».

Battei le palpebre e gli occhi di lupo divennero quelli di mio padre, nel pallido viso dello zio. Fuori, l’oscurità si era addolcita nell’aurora.

«Devo tornarmene a casa», disse lo zio.

Mi alzai e lo accompagnai fino all’entrata, ringraziandolo per aver vegliato con me, ma lui alzò una mano per farmi fare silenzio, dicendo: «Va bene così». Poi si fermò e, per la prima volta, mi accorsi di una traccia di esitazione nei suoi modi. «Dimmi: tuo padre ti ha mai menzionato la possibilità di prendere il suo posto?»

«Sì», risposi. «Era stabilito. Avevo sempre avuto intenzione di ritornare ad amministrare la tenuta, un giorno; sarei onorato di farlo per tuo conto».

«Ah! Eccellente… ma non parliamo di affari ora che i nostri cuori sono gonfi di dolore».

Mi mise le mani sulle spalle e ci congedammo l’uno dall’altro nella maniera tradizionale, poi ci avviammo per strade separate nella notte che svaniva.

Il ripetersi dell’ululato in lontananza mi fece affrettare verso casa, attraverso l’erba bagnata. Mentre mi avvicinavo all’entrata orientale della casa, notai per caso un oscuro movimento in basso, alla mia sinistra e mi gelai, preso dal panico, pensando che fosse un lupo che si era perduto o forse un orso nascosto, che correvano verso me.

Non era nulla di tutto ciò. Mentre guardavo verso la fonte del movimento e i miei occhi si abituavano all’oscurità, la piccola e sanguinante forma di Stefan si materializzò nella luce lunare che schiariva.

Il mio defunto fratello si trovava all’estremità dell’ala orientale, che affacciava sulla foresta tra la casa e il castello; alzò un sottile braccio e fece un ampio gesto indicando gli alti pini.

I nostri sguardi si incontrarono. Mi guardò con una solennità piena di rimprovero, non più da demonietto ridente, con gli scuri occhi castani — gli occhi di mia madre — enormi e a mandorla, tendenti leggermente verso l’alto, in una testa di bambino ancora troppo grande per il suo corpo sanguinante. Sotto il mento, pendeva un brandello di pelle che brillava oscuramente; la luce lunare faceva risaltare nella gola il biancore dell’osso. Indicò di nuovo con l’indice verso gli alberi lontani e silenziosamente batté il piede in un caratteristico gesto di impazienza che non avevo visto in vent’anni.

Emisi un debole gemito di terrore, caddi in ginocchio, e mi coprii il volto. Rimasi lì alcuni minuti finché, alla fine, osai sbirciare attraverso le dita tremanti.

Stefan era scomparso. Mi rimisi a fatica in piedi, ripulendomi dai pezzetti di erba bagnata che mi si erano attaccati ai pantaloni e mi affrettai a rientrare in casa.

Ora sto scrivendo. Da qualsiasi parte guardi stasera, temo di vedere Stefan: nel letto accanto a mia moglie, o fuori nel corridoio. So che questa apparizione è soltanto frutto della grande afflizione che provo, eppure non riesco a impedire alla mia mente di ruminare sulle leggende circa il moroi.

Che cosa vuoi che trovi, fratellino? Che tesoro c’è, nascosto nella foresta?

Ho scritto tutto questo con un ritmo febbrile. Non è ancora mattino ma il sole è alto nel cielo. Mary dorme ancora, poverina. Adesso mi stenderò vicino a lei, e pregherò di non sognare i lupi.

Capitolo secondo

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh

6 aprile. Sto scrivendo che è passata la mezzanotte… anzi, suppongo che in realtà sia, dopotutto, il 7 aprile… Ho così bisogno di dormire… sono così esausta! Il giorno in cui papà è morto, ho pianto per tutta la notte, né ho potuto riposare bene la notte seguente. Ora che il dolce sonno finalmente arriva, sono tenuta sveglia dall’abbaiare di Bruto. Continua a scagliarsi contro la finestra. Adesso è calmo ma, se lo fa ancora, lo chiuderò in cucina, prima che svegli l’intera casa.

Sulle prime, quando ho aperto gli occhi e ho guardato verso la finestra, ho pensato di vedervi riflesso il viso dello zio, ma era soltanto l’immagine residua di un sogno. Bruto era talmente agitato che, alla fine, mi sono alzata, ho aperto le imposte per indagare, e ho visto qualcosa di furtivo e di grigio che correva attraverso i campi: un lupo.

Avevo pensato che non sarei stata in grado di dormire dopo lo spavento e che avrei continuato a scrivere dell’arrivo di Kasha e di Mary, ma la stanchezza ha la meglio su di me. Ora, a letto. Fai dolci sogni, Bruto!

Il diario di Mary Windham Tsepesh

7 aprile. Questo paese è bello, selvaggio e strano come la sua gente, e i familiari di mio marito sembrano essere i più strani di tutti.

Il senso di colpa non è lieve mentre scrivo queste parole, ma io devo in qualche modo alleggerire il fardello di questa consapevolezza: però non posso dirlo al mio bravo marito e. certamente, non alla sua famiglia. Eppure, mentre comincio a scrivere, sono tentata di attribuire le mie spiacevoli sensazioni a manie dovute alla mia condizione. Forse, tutte le mamme in attesa soffrono di tali preoccupazioni…

Sciocchezze! Non sono mai stata fragile, mai soggetta a malattie che si originassero dai nervi. Arkady è orgoglioso del mio equilibrio, ed è vero. Io provengo da gente con il sangue freddo. Amo mio marito per il suo calore, la sua passione, le sue audaci profferte che a me non salgono facilmente alle labbra. La maggior parte delle volte invidio proprio queste qualità.

Ma il suo prozio le possiede fino al livello della pazzia.

Non posso dire nulla al mio povero, caro Arkady; è già abbastanza depresso per la morte di suo padre. Sono decisa a non aumentare la sua angoscia, poiché la capisco fin troppo bene. Sono rimasta orfana all’età di tredici anni. Ho quattro sorelle e tre fratelli, ma siamo cresciuti divisi nelle case di lontani parenti, quando mia madre e mio padre morirono precocemente in un incendio. Ho desiderato così a lungo di appartenere nuovamente ad una vera famiglia che, quando a Londra lessi le belle lettere del padre, della sorella e del prozio di Arkady che mi accoglievano nella loro, mi vennero le lacrime agli occhi. Mi sentivo onorata di far parte di una tradizione che risaliva di secoli indietro nel tempo; mi sentivo privilegiata. Sapevo che i miei figli ne sarebbero stati fieri.

Quando finalmente sono arrivata in Transilvania, la lussureggiante bellezza del paesaggio mi ha affascinato, e la magnificenza delle proprietà di famiglia mi toglie il fiato, ogni volta che concentro la mia attenzione su ciò che mi circonda. Posso a stento credere che sono una parte di tutto ciò, che ora sono considerata la castellana di questo grande castello costruito quattrocento anni fa.

Mentre scrivo queste parole, posso alzare gli occhi e vedere attraverso le persiane aperte delle eteree nuvole di gemme dove i ciliegi e gli alberi di prugne ricoprono il lato della montagna accanto al grande castello di pietra del Principe, che si erge contro lo sfondo dei Carpazi. Oltre la finestra opposta, dei pastori in costume caratteristico sorvegliano delle greggi al pascolo nei campi aperti che circondano la fitta foresta, una vista che non deve essere affatto diversa da quella che gli abitatori di questa stanza dovettero vedere in secoli precedenti.

Arkady dice che c’è anche un vigneto e, quando siamo arrivati da Bistritz, mi indicò i vasti campi del suo prozio accanto al villaggio nella valle, e disse che in autunno sarebbero diventati dorati per il grano. I possedimenti degli Tsepesh forniscono cibo all’intera comunità: piuttosto generosamente, direi, poiché i contadini locali sembrano molto meglio vestiti e nutriti di qualunque altro che abbia visto in altre zone di questo impero.