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«Ha ucciso un migliaio, un milione di volte, Zsuzsa! Tu stessa hai detto che non lo ami più».

«No», disse lentamente. «No… io non lo amo. Lo disprezzo per quello che ha fatto a te e a papà, perché mi ha ingannato. Ma sono venuta da te perché non desidero vedere che a qualcuno venga fatto del male, nemmeno a lui».

«Ma potrebbe fare del male a Mary!».

Abbassò il bel viso, dal colorito leggermente rosato, rubato alle guance di Frau Mueller, e sospirò una riluttante ammissione.

«Sì… farebbe qualunque cosa per corrompere la tua anima: ucciderebbe tua moglie, tuo figlio (purché tu viva per generarne un altro). Ma non ti farà del male, non finché tu rimarrai innocente».

Sollevai la testa, e il battito del cuore aumentò mentre una più potente rivelazione si presentava.

«E se io muoio innocente…?»

«Sarebbe distrutto».

«Zsuzsa!». Dimenticando il crocifisso, le presi la mano; lei indietreggiò con un piccolo grido di dolore. «Zsuzsa, devi promettermi, allora, che tu spiegherai ogni cosa a Mary e provvederai a che lei e il bambino stiano bene…».

Presi quindi il revolver di papà, nascosto sotto il panciotto.

Tese le mani per fermarmi, trasalendo quando le nostre carni si toccarono.

«No! Dev’essere una morte innocente, Kasha. Se muori per la tua stessa mano o con la tua complicità, la tua anima è perduta e il Patto confermato».

Mi inginocchiai davanti a lei.

«Allora uccidimi!».

Distolse il viso e fissò un momento la luce del sole che macchiava la foresta prima di bisbigliare:

«Questa vita è grottesca… ma troppo meravigliosamente strana perché io l’abbandoni, fratello. Ho dei poteri, delle capacità, la bellezza che non ho mai sognato nella mia piccola e patetica vita umana. Non chiedermi di rinunciarci così presto…».

«Zsuzsa, non capisco…».

Tirò un respiro e si voltò verso di me, con i lineamenti perfetti deturpati, contorti da un’agitazione interna.

«Se distruggi Vlad, distruggi me».

La guardai negli occhi e seppi allora che amava ancora V. tanto quanto lo odiava; che da lei non avrei avuto alcun aiuto oltre quello che mi aveva già offerto. Infatti, vidi comparire in quegli occhi il dispiacere.

Improvvisamente, aggiunse:

«Fuggi, Kasha, fuggi. Rimani vivo, per amore del bambino, e portalo lontano da qui, perché dal momento in cui sarà nato, Vlad lo legherà a sé con il rito del sangue… a meno che tu non lo impedisca».

E scomparve. Non impercettibilmente, non gradualmente, ritornando nelle ombre, ma improvvisamente come il piccolo spettro di mio fratello era svanito davanti ai miei occhi nella foresta. Un momento prima fissavo l’immagine di mia sorella radiosamente bella, quello dopo, il mattino grigio e le sagome alte e distanti degli alberi.

Non indugiai, ma ritornai all’interno del castello, trovai le erbe medicinali contro il dolore che Dunya aveva richiesto, e le consegnai nelle sue mani.

Adesso il tormento di Mary è costante; sicuramente il bambino nascerà presto. Non sopporto più di aspettare, scrivendo e ascoltando la sua sofferenza.

Devo agire.

Capitolo quattordicesimo

Il diario di Arkady Dracul

Data sconosciuta. Notte. È passata l’eternità da quando ho scritto per l’ultima volta in questo diario, ma voglio cominciare dal momento in cui ho smesso.

Le grida di Mary divennero così disperate che corsi nella stanza per darle conforto, abbandonando il diario sul tavolino accanto al letto. Quando si calmarono, non rimasi lì, ma ripresi il mio posto nel corridoio, aspettando finché fui certo che entrambe le donne fossero troppo distratte per notare che me ne ero andato, e poi scivolai silenziosamente nell’oscuro, claustrofobico corridoio, oltre l’entrata di pietra, ritornando nella camera esterna di V., dove si trovava il trono e il teatro di morte.

Quel mattino ero già passato attraverso quella stanza per due volte, ogni volta in fretta, senza guardare. Questa volta entrai, e osservai con attenzione ciò che mi attorniava.

L’aria sembrava soffocante, senza vita, pesante per la morte e i dolori che vi si consumavano. Alla mia sinistra, c’era il grande trono vuoto; davanti a me, la tenda di velluto era ancora aperta rivelando la “strappata” e altri strumenti di tortura. La mannaia che Laszlo mi aveva scagliato era stata rimessa con cura al suo posto con gli altri strumenti del macellaio.

Camminai dietro il tavolo su cui era stato Herr Mueller, e presi il coltello con la lama più grande e più spessa, poi scelsi un paletto corto e appuntito e il pesante martello. Così armato, mi avviai verso il rifugio più interno. Anche quella porta era leggermente accostata. La spinsi con la punta del mio stivale e la udii aprirsi con un lamento simile a quello di un moribondo.

Ero sorpreso che V. avesse così tanta fiducia in me da non sprangare la porta; pensai a Zsuzsa che parlava indignata della sua arroganza. Lui le aveva mostrato la sua durezza di cuore, ma il suo egotismo non gli permetteva di credere che lei non lo adorasse più. Era anche così scioccamente sicuro del mio amore, tanto da non temere il tradimento?

Entrai. Di nuovo, un odore di polvere e di lieve putrefazione. Mi diressi subito alla più grande delle due bare, poggiai silenziosamente il coltello di Laszlo sul pavimento, e con il paletto e il martello in una mano, aprii il coperchio della bara con l’altra.

Si alzò con facilità, senza resistenza e, nell’istante in cui si sollevò, il mio cuore cessò momentaneamente di battere in seguito alla più pura e fredda ondata di paura che abbia mai conosciuto. Eppure mi dava una strana euforia, come essere tra i frangenti di un mare artico, e seppi in quell’istante che non mi sarei sottratto al mio compito.

Sollevai del tutto il coperchio e guardai nell’oscurità il rivestimento scarlatto, consumato, che indicava i chiari segni del peso della testa e del tronco sulla stoffa in seguito agli innumerevoli anni.

Vuota!

Una voce lontana, straniera e con uno strano accento, ruppe la quiete.

«C’è qualcuno?».

Il suono mi spaventò talmente che il martello e il palo mi sfuggirono di mano e caddero rumorosamente contro la pietra. Il cuore mi batteva furiosamente. Zsuzsanna si era, forse, pentita della sua confessione e, capendo che lei e V. avrebbero potuto presto essere distrutti, era andata subito ad avvertirlo?

Corsi nella camera esterna, notando a malapena il teatro di morte scoperto.

«C’è qualcuno?».

Il grido divenne più forte, più insistente; con un sussulto, compresi che riecheggiava sulle mura interne del piano sottostante. Un estraneo era entrato nel castello.

Rivolsi uno sguardo angosciato all’entrata che conduceva alla signorile prigione di mia moglie, da cui le sue grida uscivano senza sosta. Non desideravo lasciarla nella poco sicura compagnia di Dunya, specialmente adesso che non ero certo di dove V. si trovasse, ma non potevo ignorare le grida del forestiero… poiché sapevo, con infelice certezza, chi era che chiamava.

Uscii correndo dalla camera e scesi in un lampo la scala a chiocciola. Vicino all’entrata principale, mi imbattei in uno straniero che aveva appena cominciato a salire le scale. Ci fermammo a parecchi metri di distanza, io sopra e lui sotto, per studiarci vicendevolmente.

Era un uomo alto, di costituzione robusta e con gli occhiali, con capelli chiari e radi, una carnagione florida che si mostrava sotto la barbetta a punta e i baffi, e occhi chiari. Dal suo vestito lo giudicai un uomo istruito e di classe superiore e, dal suo comportamento, lo ritenni riflessivo e equilibrato.

Al vedermi indietreggiò, perdendo quasi l’equilibrio sulla scala, poi si riprese con un sorriso nervoso e disse, in un tedesco con uno strano accento:

«Perdonatemi per essere arrivato senza essere annunciato, ma ho la mia carrozza e desideravo arrivare prima possibile».