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Per un momento, la mia prontezza di spirito mi abbandonò; non parlai. La mia espressione dovette allarmarlo poiché chiese, esitando:

«Questo è il castello del Principe Vlad Dracula, vero?»

«Sì», risposi, quando, infine, le facoltà mentali mi ritornarono. «Sì, lo è, ma voi dovete andar via al più presto, signore… immediatamente!».

Le sue pallide sopracciglia si incontrarono aggrottandosi sopra gli occhiali mentre mi guardava; con mite indignazione, si raddrizzò.

«Ma io sono Erwin Kohl, sono un ospite invitato! Di sicuro deve aver parlato a qualcuno del mio arrivo…».

«Infatti, signore», risposi più cordialmente, dato che avevo ripreso la mia padronanza. «E siamo spiacenti che nessuno vi abbia potuto incontrare a Bistritz, per la stessa ragione per cui dovete partire adesso: c’è una malattia nel castello. Una terribile malattia».

Sempre con le sopracciglia aggrottate, Kohl socchiuse gli occhi e piegò la testa da un lato mentre osservava attentamente il mio viso; seppi subito dalla gentile intelligenza dei suoi occhi e della sua espressione che era un uomo di acuta percezione.

Seppi anche che aveva la sensazione che stessi mentendo.

Sollevò un sopracciglio e, oltre l’incredulità, vidi un barlume di preoccupazione.

«Chi è malato? Forse posso aiutare…».

«Tutti», dissi, scendendo di uno scalino verso di lui, «tranne me».

«Potrebbe spiegare l’assenza di domestici», mormorò tra sé, poi mi disse a voce alta: «E il Principe… anche lui è malato?»

«Il Principe è il più malato di tutti». Avanzai di un altro passo, e il mio tono divenne stridulo. «Signore, sono morti in molti! Per la vostra stessa salvezza, vi devo chiedere di partire immediatamente!».

Pronunciai quelle parole con autentico panico e frustrazione, nonché con profonda convinzione, e credo che lui se ne fosse accorto. Avrebbe dovuto reagire con la paura e partire con urgenza ma, con mio sgomento, si raddrizzò e rimase dov’era, poi serrò la mascella, alzò leggermente il mento verso l’alto e in quei piccoli e ostinati gesti, vidi la mia sconfitta.

Era deciso a restare… per una ragione che non riuscii a comprendere.

«Non fa nulla. Permettetemi di vedere il Principe».

La sua voce era velluto sopra la pietra: morbida in superficie, dura come la silice al di sotto.

«No. Dovete partire ora».

Con rapidità scesi i gradini che ci separavano e lo presi per le spalle, pensando di farlo girare e di condurlo giù lungo le scale e fuori del castello. Ma era un uomo più grosso di me e fece resistenza. Ci azzuffammo goffamente, senza convinzione — nessuno dei due era, chiaramente, un uomo violento — con il risultato che si trovò due gradini sopra di me, con una pistola brandita con mano ferma.

«Portatemi dal Principe», disse ancora, e mirò con attenzione l’arma alla mia fronte.

Lo guardai negli occhi. Erano di un blu chiaro, razionali, gli occhi di un uomo comprensivo. Non lo giudicai capace di crudeltà, ma sembrava aver raggiunto un livello di disperazione che eguagliava il mio.

Mi sedetti sul gradino, misi i gomiti sulle ginocchia e le mani sugli occhi e risi finché non sgorgarono le lacrime, pensando: Ora mi sparerà, il Patto sarà rotto, e la mia famiglia sarà salva.

Il presunto signor Kohl non fece fuoco, ma rimase tranquillo di fronte al mio riso isterico, forse sorpreso dalla mia reazione come io lo ero stato dalla sua.

Lo guardai e chiesi con lieve irritazione:

«Bene, uccidetemi allora e facciamola finita».

Poi feci silenzio, pensando che affrettare la mia morte avrebbe potuto essere considerato un suicidio e soddisfare in tal modo il Patto di Vlad.

Con un’espressione interrogativa, lo straniero chiese:

«Chi siete voi?»

«Arkady Tsepesh, il suo pronipote».

Risi ancora, in tono stridulo, senza divertimento.

«O piuttosto il suo pro-pro-pronipote, con ancora molti gradi».

«Dovete portarmi da lui».

Ancora una volta, cercai di ridere; ne emerse un singhiozzo.

«Lo farei se potessi: si è nascosto».

Abbassai la voce fino a un insistente bisbiglio.

«È un assassino… è peggio di un assassino. Ecco perché ve ne dovete andare subito! Per favore… Vi supplico! Andate! Non siete al sicuro!».

Dietro gli occhiali gli occhi di Kohl si ingrandirono per la meraviglia; quell’emozione lasciò subito il posto alla fiducia. Eppure rimase ostinato e immobile sulle scale, con il revolver ancora puntato alla mia testa.

«Vi credo», disse calmo. «E non ho alcun desiderio di farvi del male, ma devo insistere…».

«Domnule! Domnule!».

Dunya scese gridando per le scale, con i capelli scuri che le sfuggivano dal fazzoletto e del sangue vivido che le sporcava il grembiule di lino. Era così agitata che non reagì allo strano quadro di Kohl che mi puntava contro una pistola, mentre io ero rannicchiato due gradini più in basso. In tedesco, la lingua che condivideva con la sua padrona e che, senza dubbio, aveva parlato durante la notte trascorsa e il mattino, gridò:

«Venite ad aiutare! Il bambino è capovolto e io non so muoverlo! Lei ha un’emorragia…! Ho paura che muoiano tutti e due!».

Le lacrime e il panico nei suoi occhi erano autentici. Senza pensare alla canna della pistola puntata alla mia testa, mi alzai e mi feci strada scansando Kohclass="underline" V e tutti i Demoni dell’Inferno non mi avrebbero trattenuto. Dunya ed io salimmo correndo le scale, passando attraverso la camera interna, fino all’elegante prigione, al fianco di Mary.

Le lenzuola del letto erano macchiate di rosso: mia moglie era caduta in deliquio, ed era così spaventosamente pallida, che pensai fosse morta finché non si mosse e gemette. Caddi in ginocchio accanto a lei e le presi la mano fredda. Era in uno stato di tale sofferenza che non mi riconobbe, ed io stesso ero così disperato — impotente mentre guardavo mia moglie dalle labbra grigie — che non degnai di un pensiero lo straniero, e non mi resi conto che ci aveva seguito, finché non udii la sua voce dietro di me che diceva a Dunya:

«Tienila calda e premi qui. Io ritornerò immediatamente».

In quel momento, ascoltai le sue parole ma non le udii veramente. Senza fare domande, Dunya obbedì agli ordini del forestiero, singhiozzando piano quando io, per la prima volta nella mia vita, pregai. Non sono sicuro se pregai Mary, mio padre, Dio o un astratto Bene, ma so che la disperazione estrema del mio cuore lacerò il velo tra questo mondo e il mondo invisibile e mi permise di passarvi attraverso e di toccare il limite di Qualcosa — una forza — molto reale, molto viva.

Offrii in cambio la mia vita, la mia anima, se mia moglie fosse riuscita a sopravvivere a quel momento, se solo a mio figlio fosse stato risparmiato il destino di mio padre. Pregai che potesse esservi nel mondo un Bene abbastanza forte per vincere il Male che aveva soggiogato la mia famiglia; pregai che il retaggio di sangue potesse finire con me.

La mia anima era così assorta nella supplica, che non notai affatto che il forestiero se n’era andato ed era ritornato. So soltanto che, alla fine, una grande ombra incombente cadde sul viso pallido di Mary; guardai in su, temendo di vedere V… e, invece, vidi lo straniero, come un grande orso biondo ai piedi del letto, senza giacca, con le maniche della camicia arrotolate sopra i gomiti.

Dunya aveva mantenuto le candele accese nella camera senza finestre e delle minuscole fiammelle danzavano, riflesse negli occhiali.

«Non ho menzionato nella lettera che ero un medico», disse, poggiando una grossa borsa da medico nera sul letto. «Forse, posso essere d’aiuto». Si chinò e, muovendo discretamente le lenzuola, esaminò mia moglie tastandola. «Bene. È vero, il bambino è capovolto, ma noi lo raddrizzeremo…».