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Si mise al lavoro. Accadde subito dopo: l’urlo lacerante di Mary, seguito rapidamente da quello del bambino, e poi lo straniero tenne nelle sue mani enormi il mio bambino, viscido e coperto di sangue.

«Un maschio», annunciò, e ci sorridemmo l’un l’altro, senza frenare la contentezza, come se non fossimo degli sconosciuti ma dei vecchi e cari amici che condividevano quella gioia; come se lui non avesse, qualche minuto prima, tenuto una pistola puntata al mio cranio.

Mio figlio. Il mio piccolo, arrabbiato e piangente figlio.

Mia moglie cadde ben presto addormentata mentre l’inatteso medico si prendeva cura di lei. Io mi lasciai andare su una sedia vicina e piansi per la bellezza e l’orrore dell’evento.

Quando il forestiero ebbe finito e si fu lavate le mani in un catino, si voltò verso di me, asciugandosi le mani in un asciugamano, e disse a voce bassa:

«Il bambino è piccolo ma sano. È prematuro, vero?».

Annuii, e con una mano tremante mi coprii gli occhi.

«Senza dubbio la madre ha sofferto per qualche recente spavento».

Gettai una cupa occhiata a Dunya, che aveva finito di lavare il bambino ed ora lo stava avvolgendo strettamente nelle coperte, poiché desideravo parlare liberamente allo straniero ma non osavo con lei presente. Il dottore vide e sembrò intuire la mia riluttanza, sebbene sorridesse a Dunya mentre lei gli porgeva il bambino pulito.

Rapidamente, assentii con la testa in modo che Dunya non lo notasse.

Lui sistemò il bambino nelle braccia di mia moglie che sonnecchiava e disse piano:

«È giovane e forte, ma ha perso una pericolosa quantità di sangue. Avrà bisogno di molte cure».

Allora Mary si mosse e si trovò il bambino nelle braccia, e il sorriso con cui ci onorò in quel momento rimarrà per sempre il mio ricordo più dolce.

«Il nome», bisbigliò. «Quale sarà il suo nome?»

«Stefan», risposi. «Per mio fratello».

«Stefan George».

Lo disse lentamente, assaporandone il suono.

«Un bel nome», aggiunse il dottore, illuminandosi.

Mary sussultò leggermente alla vista dell’estraneo, ma io sussultai per le sue parole poiché tutti e tre avevamo appena parlato nella lingua madre di mia moglie.

«Parlate inglese», dissi.

«Sì. C’è qualcosa che volete dire e che non volete che la ragazza oda?».

Ancora sorridendo, indicò il bambino con la testa come se avesse appena fatto un complimento a dei genitori orgogliosi.

Guardai mio figlio, rosso, rugoso e bello.

«È un’alleata del Principe; adesso saprà che siete qui. La vostra vita è in grande pericolo. Dovete partire immediatamente…».

«E che cosa ne sarà di voi e della vostra famiglia?». Il forestiero si chinò sul bambino e gli offrì un grande e grosso dito, che il piccolo Stefan afferrò con forza. «Non sarebbe consigliabile che vostra moglie viaggiasse, ma questo luogo… Ho visto quali orrori vi sono nella stanza che conduce a questa. Voi mi sembrate delle persone buone. Vi devo abbandonare qui?».

Seppi in quel momento che la mia preghiera era stata esaudita nella forma di quell’uomo, che aveva salvato mia moglie e poteva, adesso, salvare mio figlio.

Lo guardai con speranza.

«Forse mi potete aiutare».

Mi alzai e camminai verso l’entrata, lasciando Mary con il bambino. Non desideravo offuscare la sua felicità in quel momento.

Kohl sembrò capire; sorrise a mia moglie e disse in tedesco:

«Il bambino ha senza dubbio fame, signora. Permettetemi di lasciarvi sola per alcuni minuti per nutrirlo».

Mi seguì nel corridoio e si chiuse la porta alle spalle.

Dissi a voce bassa in inglese:

«Perché siete qui?».

Il forestiero esitò; la sua espressione indicava che la fiducia lottava con il sospetto.

«Primo: devo sapere perché voi siete qui. Che cosa conduce un uomo nella casa di un assassino, anche se è un suo parente?»

«Siamo suoi prigionieri», dissi, senza cercare di nascondere il mio tormento. «Come lo sarete voi, se non partite. Lui ha minacciato mia moglie e il bambino, sperando di corrompermi per assisterlo nel compiere il male».

Mi portai una mano tremante agli occhi per nascondere la vista del forestiero, sperando di poter cancellare il ricordo di ciò che avevo appena rivelato.

Il forestiero sospirò profondamente e disse:

«Mio padre visitò questo stesso castello venticinque anni fa».

Abbassai le mani e incontrai il suo sguardo.

«E scomparve», mormorai.

Il dolore guizzò nei suoi occhi prima che guardasse altrove.

«Senza una traccia», disse cupamente. «Io, naturalmente, non ero che un ragazzo a quel tempo. L’ultima lettera che ricevemmo da lui era stata impostata a Bistritz, il giorno prima che andasse in visita dal vostro prozio. Per anni, la mia famiglia ha tentato di ricostruire ciò che gli accadde… ma fummo sempre ostacolati. Nessuno ci volle aiutare, né la polizia di Bistritz, né il governo locale. Spendemmo un enorme somma di denaro per avvocati, persino per un investigatore privato, cercando di rintracciarlo. Gli avvocati fallirono e l’investigatore stesso sparì e non se ne seppe più nulla.

Infine, mia madre si arrese e abbandonò la speranza, poiché era del tutto chiaro che era stato vittima di un delitto e che una sorta di cospirazione circondava la sua scomparsa. Anch’io abbandonai le ricerche, finché dei sogni in cui mio padre supplicava aiuto mi hanno talmente disturbato che non potei ignorarli più a lungo. Ho promesso di vendicarlo e così, preso dalla disperazione, ho viaggiato fin qui e ho saputo molto da brava gente del luogo. Ho sentito molte, molte storie, alcune completamente fantastiche, ma tutte indicano che vostro zio è un assassino recidivo. Non ho dubbi che il mio povero padre sia stato una delle sue vittime».

«Tutte le storie sono vere», dissi tetramente. «Anche le più fantastiche…».

Kohl si lasciò andare a una risata di spavento.

«Certamente no! Dicono…». Abbassò la voce. «Dicono che sia un Vampiro, un bevitore di sangue umano. Voi sembrate un uomo istruito, intelligente. Di sicuro non…».

«Il collo», gli dissi. «Esaminate il collo della ragazza».

«State scherzando», disse, con meno convinzione e fece un sorriso che svanì lentamente mentre mi osservava in volto. «È impossibile».

«Sì, impossibile… e vero».

Non dissi nient’altro; rimasi in silenzio finché, finalmente, Kohl si voltò e bussò alla porta, attendendo finché Dunya disse che poteva entrare.

Lo guardai dalla porta aperta mentre visitava ancora mia moglie e mio figlio, parlando allegramente a entrambi in tedesco; il suo sguardo cadde sui fogli scritti con la mia calligrafia, che si trovavano sul tavolino accanto a mia moglie distesa. Forse vi vide qualcosa che lo disturbò, poiché la sua espressione si oscurò momentaneamente. Poi sorrise di nuovo e si voltò verso Dunya, dicendo:

«Signorina, sembrate molto provata! Siete sicura di non essere malata?».

Lei arrossì e balbettò:

«No, sono semplicemente stanca».

Ma lui con un gesto ignorò la sua risposta e insistette affinché aprisse la bocca, in modo che potesse osservarle la gola.

«Poiché c’è stata un’epidemia di difterite nella regione», spiegò.

Con destrezza, le toccò le ghiandole nel collo, riuscendo ad abbassare sufficientemente il colletto per vedere i segni incriminati.

«Bene, bene», mormorò, con un’espressione composta, ma la schiena gli si irrigidì leggermente per la reazione.

Io entrai e dissi, a beneficio di Dunya:

«Herr Kohl, permettetemi di mostrarvi le stanze degli ospiti e aiutarvi con il bagaglio. Senza dubbio, desiderate riposarvi».

«Ah!». Si voltò, gli occhi chiari che luccicavano ancora per lo stupore e mi seguì nel corridoio. Quando fummo a sufficiente distanza per non essere uditi, disse: «Non è una prova. Quei segni potrebbero essere stati fatti da un animale…».