Выбрать главу

Trattenni la lingua e lo condussi nella grande camera esterna, oltre il trono. Osservò tutto con occhi spalancati, scuotendo la testa per l’incredulità.

«L’ho visto prima, quando vi ho seguito da vostra moglie, sebbene non riesca a credere ai miei occhi», mormorò. «Che sorta di mostro…?». Indicò il teatro di morte scoperto. «E senza dubbio lì dove…».

Si interruppe, incapace di continuare. Gli misi la mano sulle spalle, comprendendo fin troppo bene il suo senso di orrore e di sgomento.

Dopo un momento di silenzio, dissi:

«Venite».

Lo condussi nel rifugio più interno dove si trovavano le bare, con i coperchi ancora aperti che mostravano le impronte dei loro corpi sulla seta rossa. Accanto ad essi sul pavimento giacevano il palo, il martello e il coltello che io avevo lasciato cadere.

Kohl guardò la scena e l’altare nero con un’espressione di terrorizzato stupore, ma non parlò.

«Dorme di giorno, proprio come dice la leggenda», gli dissi. «Normalmente è qui, ma si è nascosto… da qualche parte nei possedimenti del castello, ne sono sicuro. Io intendo distruggerlo. La vostra chiamata ha interrotto la mia ricerca. Mi aiuterete?».

Lo sguardo di Kohl, di insolita intensità, incontrò il mio.

«Sì».

Gli indirizzai un sorriso senza gioia.

«Non m’importa che crediate che il mio prozio sia un Vampiro o un mostro interamente umano, ma devo insistere per la vostra stessa salvezza che prendiate questo e lo indossiate. La vostra pistola non vi darà protezione in questa casa».

Gli porsi il crocifisso di Ion, che lui si mise intorno al collo senza esitazione.

«E voi?», chiese.

«Io valgo oro per lui», dissi. «Non mi farà del male».

Al sentire ciò, Kohl mi guardò con sospetto, ma io non spiegai. Ci armammo di palo, martello, coltello, e di una lampada, poi cominciammo la caccia.

Per le ore successive, attraversammo quaranta o cinquanta stanze, guardando accuratamente, lentamente, sotto i letti, nelle credenze, nelle dispense, nei ripostigli, nelle stalle, nella cantina, in ogni luogo che potesse offrire a V. e Zsuzsa un posto per riposare.

Fuori, le nuvole erano nere e tuonava; infine, arrivò il temporale, con un forte vento che spingeva furiosamente l’acqua contro le finestre, uno sfondo appropriato per la nostra caccia. Dopo una ricerca completa dei piani superiori, ci dirigemmo alla cantina e scoprimmo, sotto uno strato di polvere così spesso che quasi non la trovammo, una porta che conduceva ad una scala. Queste scale, a loro volta, portavano ad un’intera serie di catacombe sotterranee, scavate nella terra umida e coperte di ragnatele.

Quasi mi aspettavo di trovare le ossa di martiri cristiani, ma le prime poche camere erano vuote, tranne che per i topi che correvano via al nostro avvicinarsi e per una fiorente popolazione di scarafaggi: i margini del raggio di luce della mia lampada sembravano vivi per le piccole e scure creature striscianti.

Sentivo, però, che gli oggetti della nostra ricerca erano vicini, e lo stesso, penso, sentì Kohl, perché la sua espressione divenne sempre più tesa. Tenendo alta la lampada, passai di camera in camera. Il terreno inclinava leggermente verso il basso, ed ebbi la sensazione di scendere sempre più in profondità nella terra, con l’aria che diveniva più umida ad ogni passo.

Poi entrammo in un lungo e stretto corridoio che si estendeva in un’oscurità senza fine. All’improvviso, Kohl mi toccò la spalla e disse:

«Guardate!».

Seguii la direzione del suo sguardo e vidi, alla sinistra del raggio tremolante della lampada, delle celle, ognuna della grandezza di un grande ripostiglio, scavate nella terra. All’interno vi si trovavano coperte di lana putride, tazze di stagno, scodelle, catene e qualche sgabello di legno…

Ognuna era chiusa con sbarre di ferro e dei lucchetti arrugginiti.

Cella dopo cella… forse, in tutto, una dozzina. Una prigione.

«Gott im Himmel», mormorò Kohl.

«È naturale», mormorai. «Quando la neve chiude Borgo Pass, i visitatori non possono venire, ma lui deve comunque nutrirsi…»

Anche questo doveva essere il mio compito: riempire la sua prigione in autunno, in modo che potesse mangiare durante l’inverno?

Distogliemmo i nostri volti da quell’orrore, e in qualche modo riuscimmo ad andare avanti. Infine le celle finirono e lo stesso tunnel terminò in un improvviso muro di terra pieno di radici morenti di alberi e nidi di piccoli animali. Ai piedi di quel muro c’era una grande botola di legno bordata di spesse strisce di metallo arrugginito e ricoperta di chiodi di ferro.

Corsi verso di essa, posai la lampada a terra e afferrai con entrambe le mani il grosso anello di metallo. Kohl lasciò cadere le nostre armi, mi raggiunse, e tirammo insieme.

Ma la botola era bloccata con sicurezza dall’interno e l’esterno era tenuto chiuso con una grossa catena attaccata ad un lungo chiodo conficcato nel terreno duro. Nessuna creatura poteva passare attraverso quella porta con dei mezzi che non fossero soprannaturali.

Presi il martello e colpii forte il legno, ma era pietrificato, come roccia dura. Non riuscii a far altro che intaccarlo. Cercai di rompere la catena, con lo stesso risultato, e poi cercai di infilare il palo tra la terra e il legno come una leva; anche questo tentativo fallì. Quando fui esausto, Kohl fece del suo meglio per rompere e poi sollevare la botola ma, dopo una frustrante mezz’ora, ci arrendemmo e ritornammo indietro per la lunga e tortuosa strada da cui eravamo venuti.

«Si alzerà al tramonto», dissi al mio compagno. «Dovete partire molto prima, o la vostra vita è perduta».

«Allora voi e la vostra famiglia dovete accompagnarmi», insistette Kohl. «Per vostra moglie è pericoloso viaggiare, ma sembra che lasciarla qui sia un pericolo molto più grande».

Acconsentii, semplicemente per evitare l’argomento, sebbene intendessi restare e impedire a V. il più a lungo possibile di seguirli. Era già pomeriggio inoltrato; spiegai che V. si sarebbe alzato al calar del sole, tanto che avremmo potuto solo avere un vantaggio di un paio di ore. Si imponeva la rapidità.

«Poi c’è la questione della cameriera, Dunya», dissi. «Vlad sa tutto ciò che lei sa, e se lei è sveglia e libera quando partiremo, lui saprà attraverso lei quando e in che direzione saremo diretti. Se c’è qualche modo per impedirle di farlo…».

«Lasciate fare a me», rispose Kohl con fermezza.

Ritornammo alla prigione di mia moglie per trovarla con il bambino ancora in braccio e dei fogli in grembo. Dunya le era vicino per assisterla. Mia moglie sollevò gli occhi e i nostri sguardi si incrociarono: vidi che tratteneva le lacrime. Mentre mi avvicinavo e mi fermavo a fianco del letto, al lato opposto a quello di Dunya, vidi che i fogli erano coperti della mia calligrafia: Mary aveva letto ciò che avevo scritto nel diario riguardo alle rivelazioni di Zsuzsanna.

Abbassai gli occhi di fronte a quello sguardo ferito e consapevole, disperato al pensare che avevo ancora causato a mia moglie un tale dolore. Nessuno di noi disse una parola a causa di Dunya; non dovevamo. Tutto fu raccontato dagli occhi innamorati e pieni d’orrore di Mary.

Kohl mi si avvicinò e disse gaiamente a Dunya:

«Signorina, sembrate molto stanca e pallida. Andate a dormire. Sorveglierò io la vostra padrona».

La ragazza abbassò gli occhi con timidezza, imbarazzata per essere stata notata, ma la sua voce era risoluta quando rispose:

«No, signore. Voi siete un ospite in questa casa. È mio dovere restare sveglia ed aiutare la mia padrona e il bambino».

Kohl ascoltò attentamente, poi annuì con indulgenza.

«Bene, allora, permettetemi di darvi un tonico che vi sostenga». Per un momento lei si illuminò e sembrò sull’orlo di accettare contenta, ma poi i suoi occhi divennero vuoti nello stesso orribile modo di quando aveva visto V. e la sua espressione si mutò in una di sospetto.