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«Grazie, signore, ma sono abbastanza forte».

Lui alzò le spalle e disse con simpatia:

«Come desiderate, ma preparerò un tonico per la vostra padrona», e appoggiò la sua borsa sulla credenza vicina al muro ai piedi del letto.

Ci volgeva la schiena, e né io né gli altri potevamo vedere cosa stesse facendo.

Poi si voltò verso di noi, sorridendo, e si avvicinò rapidamente al lato del letto dove sedeva Dunya.

Lei non sospettò nulla, ma studiava con preoccupazione e perplessità la sua padrona in lacrime. Kohl si chinò sul letto come per somministrare qualche farmaco a Mary ma, all’ultimo istante, si voltò e applicò un fazzoletto sul naso e sulla bocca di Dunya.

Immediatamente lei si alzò in piedi ed emise un grido soffocato; sopra il fazzoletto, i suoi occhi si spalancarono per l’indignata sorpresa ma, nel giro di pochi secondi, si chiusero, e allora si abbandonò, incosciente, nelle braccia forti e solide di Kohl.

«Non fatele del male!», gridò Mary. «Lei non ha colpa di ciò che è successo».

Turbata, mi afferrò le mani e, finalmente, diede sfogo alle lacrime. Anch’io mi misi a piangere e piangemmo per un po’, mentre Kohl adagiava delicatamente la ragazza sul pavimento.

Ritornò rapidamente al fianco di Mary e la consolò:

«Non le è successo niente; dormirà soltanto qualche ora».

«Mary», dissi, «tu e il bambino dovete andare via immediatamente con il dottore. È l’unica speranza che ho di salvarvi».

«Tu non puoi rimanere!».

Atterrita, si sforzò di mettersi seduta; il bambino che dormiva nelle sue braccia si mosse. Kohl la rimise con gentilezza ma con fermezza contro i cuscini.

«Se tu hai letto», indicai con il capo i fogli raccolti sul suo grembo, «sai che lui non farà niente per farmi del male. Io posso distrarlo finché voi non sarete in salvo. Nel momento giusto, vi raggiungerò».

Nonostante la sua debolezza, parlò con ardore.

«Sapere che la tua vita non è più in pericolo mi è di poco conforto; lui non si fermerà davanti a niente per corromperti, e molto più che la tua vita sarà perduto».

Feci scorrere una mano sulla sua fronte calda e le accarezzai i capelli bagnati.

«Mary… tu non sei più al sicuro con me».

«Forse no», disse. «Forse mi ucciderà. Non mi importa più quello che sarà di me, purché rimanga con te, ma non perderò mio marito e mio figlio.

Vlad sa di non avere potere su di te se non attraverso me e il bambino. Tu non sarai in grado di trattenerlo qui: ci seguirà immediatamente, poiché è soltanto finché saremo vivi e sotto il suo controllo che lui potrà ricattarti.

Non posso permettergli di distruggerti a causa nostra. Devi accettare questo; devi essere coraggioso. Tu sei mio marito e io non ti abbandonerò. Rimarrò con te finché non sarai libero dalla maledizione».

Voltai il viso, riluttante a lasciarle vedere il dolore che vi si leggeva, sapendo che quello che diceva era vero. Se avessi mandato via lei e il bambino insieme, V. li avrebbe seguiti… con, temevo, terribili conseguenze. Non era importante che io li accompagnassi.

Ma gli stessi orrori sarebbero accaduti se fossero rimasti.

Non sembrava esserci soluzione per la salvezza della nostra famiglia. Anche così, in quel momento, arrivò la rivelazione: vidi con magica chiarezza quello che doveva essere fatto, sebbene non riuscissi ad esprimerlo, sapendo il dolore indicibile che avrebbe inflitto alla persona più vicina al mio cuore.

Ma lei era forte; mi voltai verso di lei mentre diceva con amara dolcezza:

«Ma noi vogliamo entrambi che nostro figlio sia vivo. Credo che Dio abbia mandato quest’uomo per liberare nostro figlio dal male. Io ho fiducia in lui».

Mentre parlava indicò lo straniero con il viso che irraggiava una tale serenità e grazia che lui ne fu chiaramente commosso e si chinò al suo fianco guardandola con manifesta ammirazione.

«Signora», disse, e posò la sua grande e larga mano su quella piccola e fragile che sorreggeva il bambino. «Che io possa mostrarmi degno di questa fiducia. Il vostro coraggio è straordinario; dite soltanto ciò di cui avete bisogno e sarà vostro».

«Ci aiuterete?», chiese lei, ripetendo la domanda che io gli avevo posto nel rifugio segreto dello strigoi.

Di nuovo Kohl rispose subito, con la sua ferma voce di basso:

«Sì».

Così i nostri destini furono decisi. Io non potei fare altro che baciare il palmo della mano di mia moglie e tenerla stretta mentre preparavamo i piani che ci laceravano il cuore.

Entro un’ora avevamo abbandonato il castello, portando con noi soltanto le cose più necessarie nel caso che fossimo sopravvissuti. Indirizzai il forestiero verso nord, mentre noi prendevamo la strada di fuga più ovvia verso sud-ovest, verso Bistritz.

Era già tardo pomeriggio; la pioggia era cessata, ma l’aria era umida e fredda. Nuvole scure riempivano ancora il cielo, trasformando il giorno nell’oscurità di un prematuro crepuscolo. …alti alberi stillavano gocce di pioggia ricordando un altro momento, un altro Stefan. Avevo sognato mio fratello nel rientrare in quella scura foresta: pensai di nuovo a lui in quel momento mentre fuggivamo, e pensai anche a Shepherd, di cui ci fidavamo, ma che aveva dimostrato di avere il cuore di un lupo.

Guidavo il calesse, con la Colt di papà infilata nella cintura come protezione contro i lupi. Mary giaceva dietro di me sul sedile dei passeggeri, adagiata su dei cuscini e riparata da coperte di lana, con un piccolo fagotto stretto teneramente al seno.

Non avevamo che un’ora prima del tramonto. Per quel momento lo straniero avrebbe attraversato un corso d’acqua, che Mary mi disse rendeva il Vampiro incapace di seguirlo, tranne che nella bara o nel periodo di secca.

Ma per la strada che avevamo scelto, mia moglie ed io non avremmo raggiunto il fiume più vicino che dopo circa due ore. Era un pericolo che avevamo volontariamente accettato, in modo che l’altra carrozza potesse essere in salvo.

Di nuovo, fui preso dallo stesso panico che avevo sentito vent’anni prima, quando, a cinque anni, correvo attraverso la foresta bagnata, in cerca di mio fratello. Mi calmai chiamando Mary. Temevo che potesse avere un’emorragia, un’eventualità di cui lo straniero ci aveva avvertito, ma per la quale ci aveva dato anche istruzioni.

Lei rispose debolmente, ma incoraggiandomi che tutto andava bene. Così guidai, forzando i cavalli il più possibile, facendo delle smorfie a ogni scossone nella strada non livellata e gettando delle occhiate dietro le spalle a Mary, che sopportava tutto in silenzio ma che era pallida e con le labbra tirate dal dolore mentre stringeva più forte al suo seno il fagotto.

Dopo un po’, la foresta lasciò il posto al villaggio — dove diedi uno sguardo d’addio alla piccola casa di Masika Ivanovna e al cimitero della chiesa — e poi di nuovo la foresta mentre ci dirigevamo a Borgo Pass. Presto il sole calò, e la tortuosa strada sabbiosa si restrinse finché fummo circondati dall’oscurità, dalle sagome nere degli alberi e da lontane montagne. La luna sorse, dipingendo di luce argentea i rami baciati dalla pioggia.

La notte portò con sé ulteriore paura; io caddi nello stesso soffocante panico che avevo provato quando ero rimasto intrappolato con i cavalli e i lupi che attaccavano, nella foresta immersa nella notte.

Silenzio. Tutto era silenzio, tranne che per il respiro affaticato dei cavalli e il rumore del terreno sotto le ruote. Camminammo in questo modo per lo spazio di un’ora, finché osai sperare che avremmo potuto portare a termine la nostra fuga.

Ma poi udii un ululato. Dapprima lontano, poi più vicino e seguito da un altro. E poi un altro e un altro.