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Feci schioccare le redini e gridai ai cavalli spaventati di andare più veloci, più veloci, sapendo che non sarebbe servito a nulla: il fiume che ci avrebbe fornito la salvezza era a un’altra mezz’ora di distanza verso ovest.

Continuai a guidare, pregando che l’altra carrozza avesse già trovato la salvezza data dall’acqua, pregando che il nostro sacrificio non fosse vano.

Gli ululati si avvicinarono. Estrassi il revolver di papà. Come se fossero stati evocati da quell’azione, i lupi emersero dall’oscurità in tutte le direzioni. Un branco di sei lupi superarono il calesse, attaccando i cavalli che nitrivano con un’incalzante ferocia che fece gridare me e Mary all’unisono.

Nello stesso tempo, provai pietà per loro, sapendo che non erano altro che delle pedine di V. come ero stato io, ma la pietà non poté sopprimere l’istinto alla sopravvivenza. Feci fuoco, costringendo la mia mano a non tremare, poiché ci sarebbero stati più lupi che pallottole. Infatti, ne uccisi uno con facilità, mentre stringeva la zampa di un cavallo, solo per vedere che altre due creature ringhianti balzavano fuori dall’oscurità per prendere il posto del loro compagno caduto.

Poi l’obiettivo dell’attacco dei lupi si spostò dai tremanti cavalli a noi. Mentre un’altra pallottola ne colpiva un secondo, un altro emerse dall’oscurità e saltò sul posto del passeggero dove si trovava mia moglie.

La paura e l’istinto mi resero come pazzo. Mi voltai con rapidità soprannaturale e spinsi il grilletto un millesimo di secondo prima che l’animale affondasse i denti nel collo di Mary. Morì con un rantolo, con le mascelle piene di saliva spalancate, e cadde ai piedi di lei che si alzò ammutolita dallo spavento, con il fagotto premuto strettamente contro di sé. Con ripugnanza spingemmo via la creatura morta dalla carrozza.

Improvvisamente i lupi cessarono il loro attacco. Per alcuni minuti si placarono, gemendo piano, poi si accucciarono intorno a noi nella luce lunare come delle silenziose sfingi grigie, le orecchie tese in un’attesa strana, inquieta. I cavalli — tremanti e insanguinati ma non seriamente feriti — battevano gli zoccoli e nitrivano con irritazione. Posai la pistola sul sedile del guidatore, accanto a me, sapendo che la pallottola che restava nel caricatore, si sarebbe dimostrata inutile contro il male che stava per arrivare.

Dall’oscurità che ci sovrastava, una sottile colonna di nebbia si alzò nel cielo ad oriente, aleggiando sulle nostre teste e posandosi davanti al nostro calesse, proprio all’interno del cerchio di lupi. Mentre guardavamo, la nebbia, cosparsa dai bagliori di una luce ultraterrena blu e rosa, cominciò lentamente a solidificarsi e a prendere la forma di un uomo, finché, alla fine, lo stesso V. fu davanti a noi.

Era giovane, con i capelli corvini, in possesso della stessa abbagliante bellezza leonina che avevo visto nell’Impalatore quando mio padre mi aveva condotto al suo trono, e in quei penetranti occhi sempreverdi brillava un disprezzo pieno di scherno. Alla vista del loro padrone, gli animali guairono e abbassarono i loro musi tra le zampe in segno di infelice obbedienza.

«Arkady», disse piano, ma la sua voce riempì l’intera foresta. «Non ti avevo considerato tanto pazzo. Credevi veramente di potermi sfuggire?».

Si mosse verso la carrozza — non camminando ma, semplicemente, ingrandendosi nel mio campo visivo — e tese la mano verso Mary, che sedeva, premendo il bianco fagotto di lana al suo cuore.

«Dammelo. Svelta! La mia pazienza si è esaurita da molto tempo».

Subito i miei occhi cercarono quelli di Mary, e ci guardammo l’uno negli occhi dell’altra con segreto trionfo pur in preda alla paura. Lei si alzò e con un’espressione di un odio talmente intenso che non avevo mai visto prima, gettò il fagotto dalla carrozza verso i lupi, gridando:

«Non avrai mai mio figlio, mostro! Mai!».

V. trattenne il fiato. Prima che si potesse riprendere, il lupo più vicino, sobbalzando e cedendo all’istinto, aveva affondato i denti nella morbida coperta da bambino e la scuoteva come se torcesse il collo di un coniglio. L’azione rivelò che la coperta era vuota e la creatura, annusando perplessa, si sedette sulle zampe posteriori con la coperta tra quelle anteriori.

V. tornò a fissarci, con il viso che riluceva nella luce lunare come brace incandescente, gli occhi fiammanti di una furia che non poteva essere mitigata.

«Puttana! Ingannatrice!», gridò, con le labbra che si torcevano rivelando dei denti aguzzi. «Pensi di essere indispensabile? Se non sarà tuo figlio, allora sarà quello di un’altra donna… per opera di tuo marito!».

Poi la sua rabbia si spense e un crudele sorriso sensuale apparve sulle sue labbra rosse.

«Mary, graziosa Mary», l’adulò, come recitando una filastrocca, e all’improvviso salì sul predellino. «Capelli d’oro, occhi di zaffiro. Pensi di potermi ingannare, di nascondermi il tuo bambino, ma la verità è nel tuo sangue. Devo solo assaggiarlo…».

E allungò un dito verso di lei, come per accarezzare la pelle sotto il mento. Lei si ritrasse, ricadendo all’indietro sul sedile.

«No!», supplicai. «Farò qualunque cosa… qualunque cosa tu chieda. Andrò a Bistritz immediatamente, ti porterò una vittima, ti aiuterò a disfartene, avrò altri figli da altre donne: qualunque cosa tu chieda. Solo, lasciala vivere!».

Mormorai quelle parole in tutta sincerità, perché non m’importava più di quello che accadeva alla mia anima eterna, purché mio figlio e mia moglie fossero salvi. Ora che sapevo che la fuga del piccolo Stefan era riuscita, ero disposto a fare qualunque cosa V. chiedesse per salvare la vita di Mary. A questo ero già preparato da quando eravamo fuggiti dal castello, ma non avevo potuto confidarlo a Mary, poiché lei non lo avrebbe mai accettato.

V. si allontanò e sorrise con piacere, ma la bocca di Mary si aprì e lei gridò:

«Arkady, non devi: la tua anima sarà perduta e non avrà mai fine! Darà la caccia a Stefan!».

E, con rapida e improvvisa sicurezza, allungò il braccio e prese la pistola di mio padre.

V. gettò indietro la testa e rise con arrogante piacere mentre allargava le braccia, offrendosi come bersaglio.

«Vai avanti, mia cara: Spara! Spara! E vediamo quanto sarà efficace».

E la mia coraggiosa moglie fece fuoco. Mary, la mia anima, la mia saggia, amata assassina.

Meno di un secondo passò prima che la pallottola rimasta mi colpisse il petto ma, in quel fuggevole istante, vidi mia moglie prendere la mira e guardarmi negli occhi. Quegli occhi contenevano un tale amore che il male intorno a noi sembrò svanire, ormai poco importante, ed io le sorrisi con adorazione e gioia estrema, poiché sapevo che la mia vita non era maledetta ma benedetta, benedetta per aver amato una persona che aveva macchiato la sua stessa anima per salvare la mia.

Non avevo potuto parlarle di porre fine al Patto al prezzo della mia vita, poiché farlo avrebbe significato commettere un suicidio e la vittoria per lo strigoi. Non avevo potuto fare altro che lasciare il diario dove lei potesse trovarlo e leggerlo e poi pregare che avesse la forza di fare quello che era necessario.

Non mi deluse.

L’impatto mi gettò all’indietro fuori della carrozza, contro i cavalli, tra i lupi. Il dolore aumentò, consumando il cuore e i polmoni come fuoco che avvampa, ma non aveva importanza, perché la mia beatitudine, il mio trionfo, erano più grandi.

Fissai il cielo di velluto grigio e vidi che le stelle erano scomparse… e seppi che non era la notte ma la dolce oscurità della morte imminente.

Il silenzio mi circondò. Il mondo si allontanava mentre, grato, ebbro, affondavo ancora nella beatitudine. Un’eternità — o forse solo un istante — passò.

La piacevole quiete fu squarciata dai nitriti dei cavalli, dal fragore degli zoccoli, dal rumore delle ruote e, tra questi, da un grido di dolore — soffocato, apparentemente distante ma, quando aprii gli occhi, vidi V. che si inginocchiava sopra di me, gemendo di terrore.