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— Come va, Huru?

— Hai fatto un grossissimo sbaglio — disse il ferito.

Si conoscevano ed erano amici da quando erano nati. Agat seppe subito, senza possibilità di errori, che cosa avesse in mente Dipilota: il suo matrimonio. Ma non sapeva cosa rispondere. — Non avrebbe fatto molta differenza, in definitiva… — cominciò a dire, poi s'interruppe; non era disposto a fornire giustificazioni delle proprie azioni.

Dipilota disse: — Non ce n'è abbastanza, non ce n'è abbastanza.

Solo allora Agat comprese che il suo amico era fuori di sé. — È tutto a posto, Huru! — disse in tono così autoritario che Dipilota, dopo un istante, sospirò e chiuse gli occhi, come se accettasse questa assicurazione generale. Agat si rialzò e si riaccostò a Wattock. — Senti, fasciami questa mano, per favore, per fermare l'emorragia… che cosa ha Dipilota?

Rolery portò garza e cerotto. Wattock bendò la mano di Agat con un paio di giri esperti. — Alterra — disse, — non lo so. I Gaal devono usare un veleno che i nostri antidoti non riescono a vincere. Li ho provati tutti. L'Alterra Dipilota non è l'unico. Le ferite non si chiudono; si gonfiano. Guarda questo ragazzo. È la stessa cosa. — Il ragazzo, un guerrigliero stradale di sedici anni o giù di lì, gemeva e si agitava come se avesse un incubo. La ferita di lancia che aveva alla coscia non mostrava emorragia, ma sotto la pelle correvano righe rosse, a partire dalla ferita medesima, e l'intera zona colpita era strana d'aspetto, rovente al tocco.

— Hai provato gli antidoti? — chiese Agat, distogliendo lo sguardo dalla faccia tormentata del ragazzo.

— Li ho provati tutti, Alterra, e la cosa mi ricorda la ferita che ti sei fatto all'inizio dell'autunno, col klois che avevi spinto sull'albero. Ricordi? Forse fanno qualche veleno con il sangue o le ghiandole del klois. Forse queste ferite avranno il decorso delle altre. Sì, la cicatrice è quella… Quando era un giovanotto come questo — Wattock spiegò a Seiko e Rolery, — è salito su un albero per inseguire un klois, e i graffi che s'è preso non sembravano gran cosa, ma si sono gonfiati e infiammati e l'hanno fatto stare male. Comunque, in pochi giorni tutto si è risolto.

— Questo ferito non guarirà — disse Rolery ad Agat, molto piano.

— Perché lo dici?

— Io guardavo sempre… la donna della medicina del mio clan. Ho imparato qualcosa… Quelle strisce, sulla gamba, sono quelli che chiamiamo i cammini della morte.

— Conosci il veleno, allora, Rolery?

— Non credo che sia un veleno. Qualsiasi ferita profonda può provocarli. Anche una piccola ferita che non sanguina, o che si sporca. È il maleficio delle armi…

— Questa è superstizione — disse ferocemente il vecchio medico.

— Noi non siamo soggetti al maleficio delle armi, Rolery — le disse Agat, allontanandola dal vecchio indignato, come per difenderla. — Noi abbiamo un…

— Ma il ragazzo e l'Alterra Dipilota ne sono colpiti! Guarda qui… — Lo condusse fino al giaciglio dove sedeva uno dei tevarani colpiti, un tizio di mezza età, dall'aria simpatica, che mostrò ad Agat il punto dove un'ascia gli aveva mozzato l'orecchio. La ferita guariva, ma era gonfia, rossa, sierosa…

Senza accorgersene, Agat si portò la mano al cuoio capelluto, dove la ferita non curata continuava a pulsare dolorosamente.

Wattock li aveva seguiti. Guardando con ira l'inoffensiva indigena, disse: — Quello che gli eis locali chiamano «maleficio delle armi» è solo, ovviamente, infezione batterica. L'hai studiata a scuola, Alterra. Come esseri umani, non non siamo soggetti a infezione da parte delle forme viventi locali, batteriche o virali; l'unico danno che possiamo subire è una lesione agli organi vitali, dissanguamento, o avvelenamento da parte di composti chimici, per il quale abbiamo degli antidoti…

— Ma quel ragazzo sta morendo, Anziano — disse Rolery con la sua voce bassa, tenace. — La ferita non è stata ripulita prima di ricucirla…

Il vecchio dottore s'irrigidì per la furia. — Ritorna in mezzo alla tua razza e non venire a raccontare a me come si curano gli uomini…

— Basta così — disse Agat. Silenzio.

— Rolery — disse Agat, — se puoi venire via per un poco, pensavo che potremmo andare… — Stava per dire: «A casa». — A mangiare qualcosa, magari — terminò in tono vago.

Rolery non aveva mangiato; Agat andò a sedersi con lei nella Sala delle Assemblee, e mangiò un poco. Poi s'infilarono i pesanti cappotti per attraversare la Piazza buia e spazzata dal vento, fino a raggiungere l'edificio del College, dove condividevano un'aula con altre due coppie. I dormitori del Palazzo Vecchio erano più confortevoli, ma molte delle coppie sposate, se la moglie non era andata all'isola, preferivano questa semi-intimità, quando potevano. Una donna era profondamente addormentata dietro una fila di banchi, avvolta nella pelliccia. Alcuni tavoli erano messi contro le finestre, dove i vetri erano rotti dalle frecce, dalle pietre e dal vento. Agat e sua moglie appoggiarono i cappotti sul pavimento privo di copertura, per farsene un letto. Prima di lasciare che si addormentasse, Rolery raccolse neve fresca da un davanzale, e lavò con essa la mano e la testa di Agat. Quella pulizia era dolorosa, ed egli protestò, innervosito dalla stanchezza; ma ella disse: — Tu sei l'Alterra… tu non ti ammali… ma questo non ti farà male. Non ti farà male…

CAPITOLO TREDICESIMO

L'ultimo giorno

Nel suo sonno febbrile, nella fredda oscurità della stanza polverosa, Agat a volte parlò a voce alta, e una volta, mentre Rolery era addormentata, la chiamò nel sonno, protendendosi verso di lei dall'abisso buio, chiamando il suo nome da una distanza sempre maggiore. La sua voce interruppe i sogni di Rolery ed ella si alzò. Era ancora buio.

Il mattino giunse in fretta: la luce cominciò a brillare alla periferia dei tavoli rizzati contro le finestre, formando strisce bianche sul soffitto. La donna che era già nella stanza al loro arrivo, la notte prima, dormiva ancora per la stanchezza, ma l'altra coppia, che aveva dormito su uno dei tavoli per evitare gli spifferi, si alzò. Agat si mise a sedere, si guardò intorno e disse con voce roca e sguardo allarmato: — La tempesta è finita… — Spostando un poco uno dei tavoli, guardarono fuori e rividero il mondo: la Piazza calpestata, le barricate coperte da cumuli di neve, le grandi facciate dei quattro edifici, con le finestre chiuse, i tetti coperti di neve dietro gli edifici, e uno scorcio del mare. Un mondo azzurro e bianco, chiaro in modo brillante, come ombre azzurrine, di un biancore accecante in ogni suo punto toccato dalla prima luce del sole.

Era bellissimo; ma era come se le mura che li avevano protetti fossero cadute nella notte.

Agat doveva aver pensato le stesse cose, poiché disse: — Faremmo meglio a raggiungere il Palazzo prima che capiscano che, andando a sedersi sui tetti, possono usarci per il tiro al bersaglio.

— Possiamo usare le gallerie delle cantine per passare da un edificio all'altro — disse uno degli altri. Agat annuì, — Faremo così — disse. — Ma le barricate devono avere dei difensori…

Rolery attese che gli altri se ne fossero andati, poi riuscì a persuadere l'impaziente Agat a farsi medicare nuovamente la ferita alla testa. Era migliorata, o almeno non era peggiorata. La faccia di Agat mostrava ancora la battitura che si era preso dai suoi compagni di tribù; le mani di lei erano ferite dalle pietre e dalle corde che aveva maneggiato, piene di tagli che il gelo aveva esacerbato. Ella posò le mani ferite sulla testa ferita di lui e cominciò a ridere. — Siamo come due vecchi guerrieri — disse. — Oh Jakob Agat, quando andremo nella terra sotto il mare, riavrai i tuoi denti davanti?

Egli la guardò senza comprendere, e cercò di sorridere, ma non ci riuscì.

— Forse, quando un Nato Lontano muore, ritorna alle stelle… agli altri mondi — ella disse, e smise di sorridere.