Lolla-Wossiky restò in ginocchio, boccheggiando per riprendere fiato, mentre la terra tornava a essere per lui quella che era stata in passato. Erano trascorsi tanti anni; aveva dimenticato la forza di quelle sensazioni, vedere in ogni direzione, udire il respiro di ogni animale, sentire l’odore di ogni pianta. Un uomo rimasto senz’acqua fino a trovarsi sul punto di morire di sete, e all’improvviso l’acqua fresca gli si riversa in gola con tale violenza che egli non riesce a inghiottire, non può respirare; è ciò che brama sopra ogni altra cosa, ma è troppo forte, troppo improvviso, non può contenerlo, non può sopportarlo…
«Non ha funzionato» sussurrò il ragazzo. «Mi spiace.»
Lolla-Wossiky aprì l’occhio sano, e ora per la prima volta vide il ragazzo come un qualsiasi essere umano. Alvin fissava con aria desolata l’occhio mancante. Lolla-Wossiky se ne chiese il perché. Alzò la mano e si toccò. La palpebra cadeva ancora sopra l’orbita vuota. Allora capì. Il ragazzo aveva creduto di doverlo guarire da quella ferita. No, no, non essere deluso, bambino, tu mi hai guarito da un’altra ferita, molto più profonda; che me ne importa di questa piccola, insignificante infermità? La vista non l’ho mai persa; era il mio senso della terra a essere scomparso. E tu me l’hai restituito.
Tutto questo avrebbe voluto gridarlo davanti al ragazzo, gridarlo e cantarlo, tanta era la gioia che provava. Ma la sensazione era troppo forte. Le parole non riuscivano a venirgli alle labbra. Non avrebbe nemmeno più potuto inviargli visioni, perché adesso entrambi erano svegli. Il sogno era finito. Ciascuno dei due era stato l’animale del sogno dell’altro.
Lolla-Wossiky strinse il ragazzo con entrambe le mani, lo attirò a sé, lo baciò sulla fronte, con forza e vigore, come un padre, come un fratello, come un vero amico il giorno prima di morire. Poi corse alla finestra, superò d’un balzo il davanzale e si lasciò cadere a terra. La terra gli cedette morbidamente sotto i piedi come faceva con gli altri uomini rossi, come a lui non accadeva da anni; dove lui posava il piede, l’erba si drizzava a sostenerlo; i cespugli si dividevano, le foglie si ammorbidivano cedendo sotto i suoi passi mentre correva nel sottobosco; e ora finalmente gridò, urlò, cantò, senza curarsi che lo potessero udire. Gli animali non lo sfuggivano più, ma gli si avvicinavano per ascoltare la sua canzone; gli uccelli canori si destavano per cantare insieme con lui; un cervo sbucò d’un balzo dalla boscaglia per attraversare una radura al suo fianco, e Lolla-Wossiky poté posargli la mano sulla groppa.
Corse finché non ebbe più fiato, e per tutto questo tempo non incontrò un solo nemico, né provò alcun dolore; era di nuovo intero, in ogni senso che avesse una qualche importanza. Si fermò sulla riva del fiume Wobbish, di fronte alla foce del Tippy-Canoe, affannato, ridente, boccheggiante.
Solo allora si accorse che la mano gli sanguinava ancora dal taglio che si era fatto per dare dolore al ragazzo bianco. I calzoni e la camicia ne erano intrisi. Quegli indumenti da uomo bianco! Non ne aveva mai avuto bisogno. Subito se ne liberò, gettandoli nel fiume.
Allora accadde un fatto strano. I vestiti non si mossero. Restarono immobili sulla superficie dell’acqua senza affondare, senza scivolare a valle trascinati dalla corrente.
Com’era possibile? Il sogno dunque non era finito? Forse non era ancora del tutto sveglio?
Lolla-Wossiky chiuse l’occhio.
Immediatamente scorse una cosa orribile, che gli strappò un grido di paura. Non appena aveva chiuso l’occhio, si era visto nuovamente di fronte il rumore nero, nella forma di un’immensa distesa, dura e congelata. Era il fiume. Era l’acqua. Era fatta di morte.
Aprì l’occhio, e di nuovo vide solo acqua, ma i vestiti erano sempre immobili.
Chiuse l’occhio, e vide che nel punto in cui si trovavano i vestiti, sulla superficie nera, c’era uno scintillio che si raccoglieva in piccole pozze, dalle quali si sprigionava una luce abbagliante. Quello scintillio non era altro che il suo stesso sangue.
Adesso vedeva chiaramente che il rumore nero non era una cosa. Era il nulla. Il vuoto. Il punto in cui finiva la terra e cominciava il vuoto; era il confine del mondo. Ma là dove il suo sangue scintillava, era come un ponte gettato sul nulla. Lolla-Wossiky si inginocchiò, con l’occhio sempre chiuso, e protese la mano ferita e ancora sanguinante fino a toccare l’acqua.
Era solida, calda e solida. Passò la mano sanguinante sulla superficie dell’acqua, e il sangue formò come una piattaforma. Lolla-Wossiky avanzò carponi finché non vi fu sopra. Era dura e liscia come il ghiaccio, ma calda, accogliente.
Aprì l’occhio. Era di nuovo sul fiume, tranne che sotto di lui la superficie si era solidificata. Ovunque fosse stata toccata dal sangue, l’acqua era dura e liscia.
Avanzò carponi fino al punto in cui si trovavano i vestiti, e cominciò a spingerli davanti a sé. Continuò ad avanzare finché non fu in mezzo al fiume, e poi proseguì, creando davanti a sé un sottile ponte luminoso di sangue che lo conduceva dall’altra parte.
Quello che stava facendo era impossibile. Il ragazzo non l’aveva soltanto guarito. Aveva fatto molto di più. Aveva cambiato l’ordine delle cose. Era spaventoso e magnifico insieme. Lolla-Wossiky abbassò lo sguardo sulla superficie dell’acqua, tra le sue mani. Il suo riflesso ricambiò lo sguardo con l’unico occhio. Poi chiuse l’occhio, e davanti a lui si spalancò una visione completamente nuova.
Si vide in piedi in mezzo a una radura, mentre rivolgeva la parola a cento, mille uomini rossi di ogni tribù. Li vide costruire una città di capanne, mille, cinquemila, diecimila Rossi, tutti forti e interi, liberi dal liquore dell’uomo bianco, dall’odio dell’uomo bianco. Nella visione, lo chiamavano «Profeta», ma lui insisteva di non esserlo affatto. Era solo la porta, la porta aperta. Attraversatela, diceva, e sarete potenti, un solo popolo, una sola terra.
La porta. Tenska-Tawa.
Nella visione, gli compariva davanti il volto di sua madre che gli diceva quel nome. Tenska-Tawa! Ora il tuo nome è questo, perché colui che sognava si è svegliato.
Quella notte non vide solo questo ma molto di più, con lo sguardo abbassato sull’acqua solidificata del fiume Wobbish; vide tante cose che non gli sarebbe bastata una vita per raccontarle tutte; in quell’ora sull’acqua vide l’intera storia della terra, la vita di ogni essere umano, uomo o donna, Bianco, Rosso o Nero che fosse, la vita di chiunque avesse mai posato il piede sulla sua terra. Vide l’inizio e vide la fine. Guerre catastrofiche e meschine crudeltà, assassini e nefandezze; ma insieme anche tutta la bontà, tutta la bellezza di cui l’essere umano può essere capace.
E soprattutto ebbe una visione della Città di Cristallo. La città fatta d’acqua solida e trasparente come vetro, acqua che non si sarebbe mai sciolta, che formava torri di cristallo così alte che avrebbero dovuto gettare sulla terra un’ombra lunga sette miglia. Ma, terse e trasparenti com’erano, non gettavano alcuna ombra, i raggi del sole le attraversavano in ogni loro parte senza incontrare ostacoli. Ogni essere umano, uomo o donna, ovunque si trovasse, avrebbe potuto spingere lo sguardo nel cristallo e scorgere tutte le visioni che Lolla-Wossiky stava scorgendo in quel momento. E in questo modo avrebbe raggiunto la perfetta comprensione, che vedeva con occhi di pura luce e parlava con la voce del fulmine.
Lolla-Wossiky, che da quel momento in poi si sarebbe chiamato Tenska-Tawa, non sapeva se avrebbe costruito la Città di Cristallo, o se vi avrebbe vissuto, o se addirittura sarebbe mai giunto a vederla prima di morire. Sarebbe già stato sufficiente fare le prime cose che aveva visto nell’acqua solida del Wobbish. Continuò a guardare finché la sua mente non fu più in grado di sopportare quel che vedeva. Allora avanzò carponi fino all’altra sponda, risalì la scarpata e camminò finché non giunse alla radura che aveva visto nella visione.