Ma a Carthage City non c’era traccia di quell’impetuoso sviluppo economico.
Hooch s’incamminò sulla strada principale all’interno della palizzata. I soldati erano sempre numerosi e in apparenza ben disciplinati, cosa di cui bisognava riconoscere il merito al governatore Bill. Ma mentre una volta si vedevano Rossi ubriachi da tutte le parti, adesso si vedevano soltanto tipi del genere ratto di fiume, ancora più brutti di Mike Fink, con la barba lunga e una puzza di whisky intorno che un Rosso ubriaco in confronto sarebbe parso profumato. Già a metà pomeriggio, quattro vecchi edifici trasformati in saloon stavano facendo affari d’oro.
Ecco perché, si disse Hooch. Ecco dove sta il baco. Carthage City è scomparsa, si è trasformata in una città di fiume, in una città di saloon. Nessuno vuole più saperne di abitare da queste parti, in mezzo ai ratti di fiume. È una città che ormai vive solo di whisky.
Ma se le cose stanno così, non si capisce perché il governatore Bill venga a dirmi che vuole solo quattro barili e non l’intero carico, e faccia tutte quelle storie.
«Se vi va di aspettare, accomodatevi pure, signor Palmer, ma il governatore oggi non vi riceverà.»
Hooch si mise a sedere sulla panca fuori della porta di Harrison. Notò che Harrison aveva fatto cambio d’ufficio con il suo aiutante. Cedere quella stanza grande e bella… in cambio di che cosa? Meno spazio, ma… tutti muri interni. Niente finestre. Questo significava certamente qualcosa. Significava che Harrison non gradiva che gli altri lo vedessero. Forse temeva addirittura di essere fatto fuori.
Hooch rimase su quella panca per due ore, guardando i soldati che entravano e uscivano e cercando di non perdere le staffe. Harrison ogni tanto lo faceva, di costringerti ad aspettare talmente a lungo che, quando entravi, eri così infuriato da non riuscire più a connettere. Altre volte lo faceva perché uno prendesse cappello e se ne andasse. O cominciasse a sentirsi piccolo e insignificante, così che lui potesse metterselo meglio sotto i piedi. Hooch questo lo sapeva benissimo, e cercò di conservare la calma. Ma quando si fece sera, arrivò la fine del turno e i soldati cominciarono a prepararsi per la libera uscita, non riuscì a sopportare oltre.
«E ora che cosa avresti intenzione di fare?» chiese bruscamente al caporale che sedeva dietro la scrivania.
«Andarmene» disse il caporale.
«Ma io sono ancora qui» protestò Hooch.
«Potete andarvene anche voi, se volete» disse il caporale.
Quella risposta venata di sarcasmo fu per lui come uno schiaffo in pieno viso. Se si era arrivati al punto che anche quei bambocci osavano fare gli spiritosi con Hooch Palmer, i tempi stavano cambiando un po’ troppo in fretta, e a Hooch la cosa non andava affatto a genio. «Se mi vendi tua madre, potrei combinarci sopra qualche affaruccio» buttò là.
Il colpo andò a segno. Il caporale non sembrava più annoiato. Ma nemmeno diede a vedere di volerlo prendere a pugni. Si limitò a restarsene più o meno in posizione di attenti, e a dire: «Signor Palmer, potete aspettare qui tutta la notte e tutta la giornata di domani, e non per questo Sua Eccellenza il governatore vi riceverà. E il fatto che siate rimasto tutta la sera su quella panca ad aspettare è soltanto la dimostrazione che siete troppo idiota per capire da che parte tira il vento».
Così fu Hooch a perdere le staffe e a sferrargli un pugno. Be’, non esattamente un pugno. Più precisamente un calcio, perché Hooch non si era mai preso la briga di imparare a combattere da gentiluomo. La sua idea di un duello consisteva nell’aspettare dietro un masso il passaggio del nemico, sparargli alla schiena e poi darsela a gambe. Così il caporale si beccò nel ginocchio il pesante stivale di Hooch, che gli piegò la gamba all’indietro in una direzione che non era quella per cui l’articolazione era stata progettata. Il caporale urlò come un disperato, cosa che era in pieno diritto di fare, e non solo per il dolore… Dopo un calcio come quello, la sua gamba probabilmente non sarebbe mai più tornata quella di prima. Magari Hooch non avrebbe dovuto colpirlo proprio lì, lo sapeva, ma quel ragazzo aveva voluto fare troppo lo sbruffone. Praticamente quel calcio gliel’aveva chiesto a mani giunte.
Il problema era che il caporale non era solo. Al primo strillo, erano comparsi sulla scena un sergente e quattro soldati con la baionetta innestata, sbucati all’improvviso dall’ufficio del governatore e apparentemente infuriati come serpenti. Il sergente ordinò a due dei suoi ragazzi di portare il caporale in infermeria. Gli altri due misero Hooch agli arresti. Ma non si comportarono da gentiluomini come in analoghe circostanze era accaduto quattro anni prima. Stavolta il calcio dei loro moschetti andò casualmente a sbattere contro diverse parti dell’anatomia di Hooch, il quale, chissà come, si ritrovò l’impronta dei loro stivali in vari punti del suo vestiario. Alla fine lo rinchiusero in cella… stavolta, niente depositi. E lì lo lasciarono, con i suoi vestiti indosso e tutto dolorante.
Ora non poteva più dubitarne. Le cose erano proprio cambiate.
Quella notte vennero gettati in cella altri sei uomini, tre di loro per ubriachezza molesta, gli altri tre per rissa. Tra loro non c’era neanche un Rosso. Hooch ascoltò i loro discorsi. Non che qualcuno di loro fosse particolarmente brillante; ciò che tuttavia lo lasciò sconcertato fu che non parlassero di suonarle a qualche Rosso, o di farlo fesso, o roba del genere. Era come se i Rossi fossero praticamente scomparsi dal circondario.
Be’, forse era vero. Forse i Rossi se l’erano svignata. Ma non era proprio quello che il governatore Harrison aveva voluto? E ora che non c’erano più Rossi, perché Carthage City non era una città prospera e felice, brulicante di coloni bianchi?
L’unico indizio di ciò che era accaduto fu quando uno degli arrestati per rissa osservò: «Mi sa che resterò al verde fino alla stagione delle tasse». Gli altri commentarono quelle parole con bestemmie e schiamazzi. «Debbo riconoscere che lavorare per il governo non è affatto male, anche se non si può certo chiamarlo un impiego fisso.»
Hooch si guardò bene dal chiedere chiarimenti. Non c’era bisogno di richiamare la loro attenzione sulla sua persona. Molto meglio che non si spargesse la voce sullo stato in cui si trovava durante la notte trascorsa in galera. Voci di quel genere hanno il vizio di spargersi rapidamente, e dopo un po’ tutti s’immaginano di poterti fare la festa, e Hooch non aveva alcuna intenzione di ricominciare a fare a botte a ogni angolo di strada. Non aveva più l’età per cose del genere.
Il mattino seguente tornarono i soldati. Ma non erano gli stessi della sera prima, e non furono altrettanto sbadati con i piedi e il calcio dei moschetti. Stavolta si limitarono a scortarlo fuori di prigione. Ora, finalmente, Hooch fu ammesso alla presenza di Bill Harrison.
Ma non nel suo ufficio. L’incontro avvenne nella residenza del governatore, in una stanza ricavata nel sottosuolo. Non meno degno di nota fu il modo in cui ci arrivarono. I soldati — dovevano essere una dozzina — stavano marciando lungo il lato posteriore della casa, quando all’improvviso uno di loro si staccò di scatto dalla fila e aprì la porta della cantina, mentre altri due agguantavano Hooch e quasi di peso lo trascinavano giù per i gradini. La porta si richiuse che loro praticamente non erano ancora entrati, mentre nel frattempo gli altri continuavano a marciare come se niente fosse accaduto. A Hooch la cosa non piacque affatto. Poteva voler dire soltanto che Harrison non voleva far sapere a nessuno che Hooch si trovava con lui. E questo significava che l’incontro poteva farsi piuttosto sgradevole, perché Harrison era in grado di sostenere che esso non era mai avvenuto. Certo, i soldati ne erano al corrente, ma tutti quanti sapevano di un certo caporale al quale la sera precedente era stato piegato un ginocchio all’indietro; difficile credere che avrebbero testimoniato a favore di Hooch Palmer.