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Poi Mike Fink si mise alla testa dei suoi uomini e insieme con loro si unì alla catena umana, e tutti insieme tennero a bada il fuoco finché non cominciò a piovere e l’incendio non fu vinto.

Quella notte, mentre i soldati bevevano e cantavano, Mike Fink sedeva da una parte perfettamente sobrio, piuttosto compiaciuto del fatto di essersi finalmente messo in proprio nel commercio degli alcolici. Insieme con lui c’era soltanto uno dei suoi uomini, il più giovane di tutti, che ogni tanto gli lanciava uno sguardo dal basso in alto. Il ragazzo se ne stava lì seduto a giocherellare con la miccia che una volta era stata infilata in un certo barilotto di polvere nera.

«La miccia non era accesa» fece notare il ragazzo.

«No, penso proprio di no» disse Mike Fink.

«E allora come ha fatto l’acqua a bollire?»

«Penso che Hooch avesse in serbo qualche trucchetto. Penso che anche nell’incendio nel forte ci fosse il suo zampino.»

«Lo sapevi già, eh?»

Fink scosse la testa. «No, è stato solo un colpo di fortuna. Sono un tipo fortunato, io. Mi vengono delle intuizioni sulle cose, come mi è successo con quel barilotto di polvere, e allora seguo l’ispirazione del momento.»

«Una specie di dono, vuoi dire?»

Invece di rispondere, Fink si alzò e si calò i pantaloni. Sulla natica sinistra aveva il disegno deformato di un tatuaggio a forma di esagono, dall’aspetto minaccioso. «Mia madre me lo fece fare quando non avevo ancora un mese. Diceva sempre che mi avrebbe protetto finché non fossi morto di vecchiaia.» Si voltò mostrando al ragazzo l’altra natica. «Questo invece doveva portarmi fortuna. Non so come funzioni, mia madre è morta prima di potermelo dire, ma per quanto ne so me l’ha portata davvero. Mi aiuta a capire che cosa debbo fare.» Sorrise. «Adesso per esempio ho una chiatta e un carico di whisky.»

«Davvero il governatore ti darà una medaglia per avere ucciso Hooch?»

«Be’, se non altro per averlo catturato, così almeno sembra.»

«Non mi pare che il governatore fosse troppo dispiaciuto per la morte di Hooch.»

«No» disse Fink. «No, penso proprio di no. No, io e il governatore adesso siamo ottimi amici. Mi ha spiegato che ha bisogno di certe cose, cose che solo un uomo come me può fare.»

Il ragazzo lo guardò. Il suo sguardo di diciottenne era pieno di adorazione. «Non potrei aiutarti? Non potrei venire con te?»

«Hai mai partecipato a una rissa?»

«Un sacco di volte!»

«Hai mai staccato un orecchio a qualcuno con un morso?»

«No, ma una volta ho cavato un occhio a un tizio.»

«Gli occhi sono facili. Gli occhi sono morbidi.»

«E una volta ho dato una testata a uno facendogli saltare cinque denti.»

Fink ci meditò sopra per qualche istante. Poi annuì, sorridendo. «Certo che puoi venire con me, ragazzo. Quando avrò finito, non ci sarà uomo, donna o bambino entro cento miglia da questo fiume che non conosca il mio nome. Ne dubiti forse, ragazzo?»

Il ragazzo non ne dubitava.

Il mattino seguente Mike Fink e la sua ciurma sciolsero gli ormeggi dirigendosi verso la sponda meridionale dell’Hio. Sulla chiatta trasportavano un carro coperto, un tiro di muli e otto barilotti di whisky. Andavano a combinare un certo affare con i Rossi.

Quel pomeriggio, il governatore William Harrison seppellì i resti carbonizzati della sua seconda moglie e del figlioletto, che per disgrazia si erano trovati insieme nella camera del bambino — il piccolo stava indossando la sua graziosa uniforme da parata — quando all’improvviso era divampato l’incendio.

Un incendio in casa sua, senza intervento di mano umana, gli aveva portato via ciò che di più caro aveva al mondo, e che nessuna potenza terrena avrebbe mai potuto restituirgli.

VII

PRIGIONIERI

Alvin Junior non si sentiva mai piccolo, tranne quando era in groppa a qualche vecchio cavallo da tiro. Non che avesse problemi a montare: Alvin e i cavalli s’intendevano alla perfezione, lui non si era mai sognato di frustarli, e loro non si erano mai sognati di disarcionarlo. Il suo problema era che le gambe gli sporgevano come stecchi dai due lati del cavallo, e poiché stavolta cavalcava con la sella gli avevano dovuto accorciare le staffe praticando nuovi fori nella cinghia di cuoio. Al non vedeva l’ora di arrivare alle dimensioni di un adulto. Gli altri potevano ben dirgli che era grande per la sua età, ma a lui non importava un fico secco. Quando hai dieci anni, essere grandi per la propria età non è niente al confronto di essere grandi veramente.

«Non mi piace» disse Faith Miller. «Non mi piace affatto che i miei ragazzi si mettano in viaggio proprio mentre i Rossi sono sul piede di guerra.»

La mamma stavolta aveva buoni motivi per essere preoccupata. Al era sempre stato abbastanza sbadato, e particolarmente soggetto agli incidenti. Finora non gli era mai capitato niente di irrimediabile, ma il più delle volte era stata questione di un capello. L’incidente più grave gli era accaduto qualche mese prima, quando la nuova macina da mulino gli era caduta sulla gamba fratturandogliela malamente. L’avevano ormai dato per spacciato, tanto che lui stesso si era rassegnato. Sarebbe morto. Sarebbe morto di sicuro. E questo pur sapendo che i poteri a sua disposizione gli avrebbero permesso di curarsi.

Dalla notte in cui l’Uomo Luminoso era entrato in camera sua quando lui aveva sei anni, Al non aveva mai usato il suo dono a proprio vantaggio. Tagliare macine per il mulino di suo padre poteva farlo, in quanto ciò tornava a vantaggio di tutti. Alvin faceva scorrere le dita sulla roccia, la saggiava, cercava i punti nascosti di frattura, e poi metteva tutto a posto, la faceva essere come voleva lui; e la pietra docilmente si fendeva staccandosi dalla roccia com’era giusto che fosse, come lui le aveva chiesto. Ma mai a proprio vantaggio.

Poi, con quella gamba sfracellata, tutti erano certi che sarebbe morto. E Al non avrebbe mai usato il suo dono per aggiustare le cose in modo da guarire, non ci avrebbe nemmeno provato, se non fosse stato per il vecchio Scambiastorie. Questi gli aveva chiesto: «Perché quella gamba non provi ad aggiustartela da solo?» Allora Al gli aveva raccontato ciò che non aveva mai raccontato a nessuno, gli aveva detto dell’Uomo Luminoso. Scambiastorie gli aveva creduto, non aveva pensato che fosse impazzito o se lo fosse sognato. E aveva chiesto ad Al di ripensare a quello che era successo in quell’occasione, di sforzarsi di ricordare le esatte parole dell’Uomo Luminoso. E quando Al riuscì a richiamarle alla mente, capì che era stato solo lui a dire che non avrebbe mai usato il suo dono a proprio vantaggio, mentre l’Uomo Luminoso si era limitato a dire: «Rendi intere tutte le cose».

Rendi intere tutte le cose. Be’, la sua gamba non faceva forse parte di «tutte le cose»? Così Al l’aveva aggiustata, meglio che poteva. Erano accadute anche altre cose; restava tuttavia il fatto che in quell’occasione aveva usato i suoi poteri, con l’aiuto della sua famiglia, per guarire dal suo male. Ecco perché era ancora vivo.

Ma in quei giorni aveva visto la morte in faccia, e non ne era rimasto atterrito come avrebbe creduto. Disteso a letto con la morte che gli si insinuava lentamente nelle ossa, aveva cominciato a provare la sensazione che il suo corpo fosse soltanto una specie di capanna, un ricovero in cui proteggersi dal cattivo tempo mentre la sua vera casa era in costruzione. Come quelle rozze capanne che le famiglie dei nuovi coloni tiravano su in attesa di costruirsi una casa di tronchi. E se fosse morto, non sarebbe stato affatto terribile. Solo diverso, e forse meglio.

Perciò, mentre sua madre insisteva a parlare dei Rossi e dei pericoli e del fatto che avrebbero potuto entrambi morire ammazzati, Al non le aveva prestato il minimo ascolto. Non perché pensasse che sua madre si sbagliasse, ma perché per lui morire o non morire non aveva una grande importanza.