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Aveva detto a papà che non voleva andarci; papà gli aveva detto: vacci lo stesso, è per il tuo bene. Alvin Junior non aveva bisogno di farsi dire altro. Annuì e fece ciò che papà gli aveva detto, non perché non avesse fegato, non perché avesse paura di suo padre come certuni dei suoi amici. Semplicemente, conosceva abbastanza suo padre da fidarsi delle sue capacità di giudizio. Tutto lì.

«Mi mancherai, papà.» Poi fece una cosa incredibile, pazzesca, che se si fosse fermato un attimo a pensarci non avrebbe mai osato fare. Chinatosi, allungò una mano e arruffò i capelli di suo padre. E mentre lo faceva pensò: papà mi farà nero di schiaffi per averlo trattato come un ragazzino! Le sopracciglia di papà effettivamente si sollevarono, e lui alzò la mano e agguantò Al Junior per il polso. Ma poi una curiosa luce gli scintillò negli occhi, e lui rise forte e disse: «Se vuoi continuare a vivere, figliolo, sarà meglio che questa resti la prima e ultima volta».

Papà rideva ancora quando fece un passo indietro per consentire alla mamma di salutare Alvin a sua volta. La mamma aveva il viso bagnato di lacrime, ma con lui non si dilungò con i suoi «fai questo» e «non fare quest’altro», come aveva fatto con Measure. Si limitò a baciargli la mano trattenendola tra le sue, e poi lo guardò fisso negli occhi e disse: «Se ti lascio andare adesso, non ti rivedrò con questi occhi terreni sino alla fine dei miei giorni».

«No, mamma, non dire questo» replicò Al. «Non mi succederà niente di male.»

«Ricorda soltanto queste mie parole» disse sua madre. «E bada di non perdere l’amuleto che ti ho dato. Devi tenerlo sempre addosso.»

«A che cosa serve?» le chiese Al, tirandolo di nuovo fuori di tasca. «Di questo genere non ne ho mai visti.»

«Non importa, basta che tu lo tenga sempre addosso.»

«Va bene, mamma.»

Measure accostò il suo cavallo a quello di Al Junior.

«Sarà meglio andare, adesso» disse. «Prima di coricarci stasera, dobbiamo essere fuori del territorio che vediamo tutti i giorni.»

«Ti ho già detto di no» ribatté severamente papà. «Ci siamo già messi d’accordo con i Peachee che stanotte dormirete da loro. Il primo giorno non è necessario che andiate più lontano. Non voglio che trascorriate la notte all’addiaccio se proprio non è necessario.»

«D’accordo, d’accordo» disse Measure «ma per lo meno vediamo di arrivare laggiù prima di cena.»

«Andate allora» li sollecitò la mamma.

Non avevano ancora fatto una pertica di strada, che papà li raggiunse di corsa afferrando per la briglia il cavallo di Measure, e subito dopo quello di Al Junior. «Ragazzi, ricordatevelo bene! Per attraversare i fiumi dovete usare i ponti. Intesi? Solo i ponti! Ogni corso d’acqua sulla strada che va da qui al fiume Hatrack è attraversato da un ponte.»

«Lo so, papà» disse Measure. «Quando li abbiamo costruiti c’ero anch’io, non ricordi?»

«Usateli! Avete capito? E se piove dovete fermarvi, trovare una casa e fermarvi, siamo intesi? Non voglio che restiate fuori sotto l’acqua!»

Entrambi giurarono con la massima solennità che sarebbero rimasti alla larga da tutto ciò che era bagnato. «E quando i cavalli avranno bisogno di pisciare, ci guarderemo bene dal metterci a valle» disse Measure.

«C’è poco da scherzare» lo redarguì papà.

Finalmente si misero in cammino, senza guardarsi alle spalle perché questo avrebbe attirato su di loro le più tremende disgrazie. Sapevano che papà e mamma sarebbero rientrati in casa molto prima di vederli scomparire in lontananza, perché restare a guardare uno che partiva era come augurarsi una lunga separazione, e restare a guardarlo finché non scompariva avrebbe comportato buone probabilità che qualcuno morisse prima che i partenti facessero ritorno. La mamma queste cose le prendeva molto sul serio. Rientrare in fretta e furia fu l’ultima cosa che poté fare per proteggere i suoi ragazzi da ogni pericolo.

Al e Measure si fermarono nella striscia boscosa che segnava il confine tra le fattorie degli Hatch e dei Bjornson, là dove l’ultimo temporale aveva fatto crollare un albero proprio sulla strada. A cavallo avrebbero potuto benissimo passare, ma quando si trovava una cosa del genere non la si lasciava lì nel mezzo in modo che a sbrigarsela fosse qualcun altro. Magari qualcuno che viaggiava su un carro, e che voleva essere a casa prima di buio in una serata di burrasca; o magari semplicemente coloro che sarebbero venuti dopo di loro e si sarebbero trovati la strada bloccata. Così si fermarono a consumare il pranzo al sacco preparato dalla mamma, e poi si misero al lavoro con le accette, liberando il tronco dagli ultimi scheggioni di legno che ancora lo tenevano attaccato al ceppo schiantato. Molto prima di avere finito rimpiangevano di non possedere una sega, ma non era il genere di attrezzo che uno si portava dietro per fare trecento miglia a cavallo. Un cambio di vestiti, un’accetta, un coltello, un moschetto per la caccia, una scorta di polvere e piombo, un rotolo di corda, una coperta e il consueto assortimento di cianfrusaglie e amuleti protettivi e difensivi. Se si fossero portati dietro qualcos’altro, avrebbero avuto bisogno di un carro o di un cavallo da soma.

Quando il tronco fu libero, vi attaccarono ambedue i cavalli e lo trascinarono via. Fu un lavoro duro e ingrato, perché i cavalli non erano abituati a lavorare in coppia, e si davano noia a vicenda. Anche l’albero s’incastrava in continuazione, e ogni volta dovevano girarlo e ripulirlo dai rami che erano di troppo. Al sapeva bene che avrebbe potuto usare il suo dono per trasformare il legno in modo che si spaccasse nei punti giusti. Ma sapeva anche che non sarebbe stato giusto. L’Uomo Luminoso vi avrebbe trovato parecchio da ridire… Sarebbe stato un atto di puro egoismo, di pura pigrizia, dal quale nessun altro avrebbe potuto ricavare alcun vantaggio. Così tirò, sudò e menò accettate a fianco di Measure. E come lavoro non era poi così male. Quando ebbero finito, non era trascorsa più di un’ora. Era stato tempo bene impiegato.

Lavorando, ogni tanto si mettevano a chiacchierare, si capisce. Qualche volta la conversazione andava a toccare quello che si raccontava dei massacri compiuti dai Rossi nel meridione. Measure era abbastanza scettico. «Sì, quelle storie le ho sentite anch’io, ma quelle più truci sono tutte cose che qualcuno ha sentito raccontare da altri a proposito di altre persone ancora. Coloro ai quali è veramente successo qualcosa sanno raccontare soltanto che Ta-Kumsaw è arrivato e gli ha fatto scappare polli e maiali, punto e basta. Nessuno parla mai di grandinate di frecce o di gente morta ammazzata.»

Al, avendo solo dieci anni, era più propenso a credere a quelle storie, e più erano truci, più ci credeva. «Forse quando ammazzano qualcuno, ammazzano l’intera famiglia, così che poi non resta più nessuno che possa raccontarlo.»

«Cerca di ragionare, Al. Non avrebbe alcun senso. Ta-Kumsaw vuole mandare via i Bianchi di qui, non è vero? Perciò vuole spaventarli a morte, perché facciano i bagagli e se ne vadano, non è vero? Se cominciasse a compiere massacri, non pensi che dovrebbe lasciar vivo almeno un membro della famiglia in modo che possa andare a raccontarlo? Se non altro, non credi che si sarebbe almeno trovato qualche cadavere?»

«E allora tutte quelle storie da dove vengono fuori?»

«Corazza-di-Dio dice che è Harrison a metterle in giro, per aizzare la gente contro i Rossi.»

«Ma che a Carthage City gli hanno bruciato la casa e la palizzata dev’essere vero, no? La gente l’avrà pur visto se sono bruciate o no. E nemmeno può aver raccontato storie sul fatto che gli abbiano ammazzato la moglie e il figlio, no?»

«Be’, che ci sia stato un incendio è certamente vero, Al. Ma forse non sono state le frecce incendiarie di Ta-Kumsaw ad appiccare il fuoco. Non ci hai mai pensato?»