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Inginocchiatosi nel punto dove la parete incontrava il pavimento, il Profeta spinse le dita insanguinate sotto la parete e tirò. La parete si sollevò, si dissolse, si trasformò in vento. Adesso erano nuovamente circondati dalla scena che avevano lasciato molte ore prima, o almeno così sembrava. L’acqua, il temporale, la tromba d’aria che s’innalzava sopra di loro fino a scomparire tra le nuvole. Tutt’intorno a loro cadevano i lampi, e la pioggia scrosciava con tale violenza che la riva non si vedeva più. La pioggia che cadeva sulla piattaforma di cristallo su cui stavano Alvin e il Profeta si solidificava trasformandosi anch’essa in cristallo.

Il Profeta si avvicinò al bordo dalla parte della spiaggia e mise piede sulla superficie del lago in tempesta. L’acqua gli s’indurì sotto il piede, ma continuò lentamente a ondeggiare, senza immobilizzarsi completamente come la piattaforma. Il Profeta si voltò tendendo la mano ad Alvin. Questi gliel’afferrò, mettendo piede a sua volta sul sentiero che il Profeta aveva cominciato a creare sulla superficie del lago. Ma quella specie di passerella era molto meno stabile di prima, e più si allontanavano più si muoveva e diventava scivolosa, rendendo sempre più difficile superare la cresta delle onde.

«Siamo rimasti là dentro troppo a lungo!» esclamò il Profeta.

Alvin sentiva l’acqua tenebrosa premere sotto il sottile guscio di cristallo, intorbidita dall’odio. Il nulla dell’antico incubo cercava di infrangere il cristallo, afferrare le caviglie di Al, risucchiarlo verso il basso, annegarlo, farlo a pezzi, ridurlo in minutissimi frammenti e scagliarlo nell’oscurità.

«Non sono stato io!» gridò Alvin.

Il Profeta si voltò, lo afferrò sotto le ascelle e se lo issò sulle spalle. La pioggia lo sferzava, il vento cercava di strapparlo dalle spalle del Profeta. Alvin si teneva aggrappato ai capelli di Tenska-Tawa. A ogni passo, sentiva che i piedi del Profeta affondavano sempre di più nell’acqua. Alle loro spalle non vi era più traccia del sentiero, tutto era sparito, i cavalloni si facevano sempre più alti e minacciosi.

Il Profeta incespicò, cadde; anche Alvin cadde, in avanti, sicuro che la sua ora fosse giunta, sicuro di annegare…

Si ritrovò disteso sulla sabbia bagnata della riva, con l’acqua che lo lambiva portandogli via la sabbia di sotto il corpo, cercando di trascinarlo verso il lago. Poi sentì delle mani forti afferrarlo sotto le braccia e trasportarlo su per la spiaggia, lontano dall’acqua, verso la sommità delle dune.

«Il Profeta! È rimasto laggiù!» urlò Alvin. O almeno così credette… la sua voce era ridotta a un sussurro quasi inavvertibile. Ma il vento era così forte che non lo si sarebbe udito ugualmente. Quando aprì gli occhi, venne immediatamente accecato da un misto di sabbia e di pioggia.

Poi le labbra di Measure gli si accostarono all’orecchio e gli urlarono: «Il Profeta è salvo! Ta-Kumsaw lo ha portato a riva! Quando quella tromba d’aria vi ha risucchiati lassù, ero sicuro che foste morti! Stai bene?»

«Ho visto tutto!» avrebbe voluto esclamare Alvin. Ma era così debole che non riuscì a emettere alcun suono, e allora rinunciò, lasciò che il suo corpo si afflosciasse, crollasse in un sonno di puro sfinimento.

X

IL GATLOPP

Measure ebbe poche occasioni di stare con Alvin… troppo poche. Dopo l’episodio della tromba d’aria, Measure era convinto che Alvin si sarebbe reso conto del pericolo, e non avrebbe visto l’ora di andarsene. Sembrava invece che Alvin desiderasse soltanto ascoltare il Profeta, rapito dalle storie e dalla perversa saggezza poetica che questi dispensava.

Una volta che Alvin si era finalmente degnato di concedergli il tempo necessario a mettersi a sedere e scambiare due parole, Measure gli chiese che mai ci trovasse di tanto affascinante. «Anche quando parlano inglese, quei Rossi io proprio non li capisco. Parlano di questa terra come se fosse una persona, dicono che bisogna uccidere solo gli esseri viventi che si offrono spontaneamente, che a est del Mizzipy la terra sta morendo… mentre qui anche un cieco può vedere che non sta morendo proprio nulla. E anche se si fosse beccata il vaiolo, la peste bubbonica e diecimila unghie incarnite, non ci sarebbe dottore capace di curarla.»

«Non un dottore, ma Tenska-Tawa sì» disse Alvin.

«E allora che la curi, e intanto noi andiamocene a casa.»

«Un altro giorno, Measure.»

«Mamma e papà saranno distrutti, penseranno che siamo morti!»

«Tenska-Tawa dice che la terra sta provvedendo da sola a trovare una soluzione.»

«Eccoci di nuovo! La terra è solo terra, e non ha niente a che vedere col fatto che per trovarci papà sta facendo setacciare la foresta a palmo a palmo!»

«Vacci senza di me, allora.»

Ma a quel punto Measure non era ancora arrivato. La prospettiva di dover affrontare sua madre e spiegarle come mai fosse tornato a casa senza Alvin non lo allettava affatto. «Ecco, quando l’ho lasciato stava benissimo. Giocava con le trombe d’aria e camminava sull’acqua assieme a un Rosso con un occhio solo. Ancora non aveva voglia di tornare a casa, lo sai come sono i ragazzi.» No, Measure non si sentiva ancora pronto a tornare a casa senza Alvin a rimorchio. E portarlo via contro la sua volontà era fuori questione. Quando gli proponeva di scappare, Alvin neanche lo ascoltava.

L’aspetto peggiore di tutta la faccenda era che mentre tutti trovavano Alvin simpaticissimo e chiacchieravano con lui in inglese e in shawnee, a Measure nessuno si degnava di rivolgere la parola, tranne lo stesso Ta-Kumsaw o il Profeta; ma quest’ultimo parlava in continuazione, che ci fosse qualcuno ad ascoltarlo o no. Così Measure bighellonava tutto il giorno, soffrendo tremendamente la solitudine. Né gli era concesso di allontanarsi troppo. Nessuno gli rivolgeva la parola, ma non appena si allontanava troppo dalle dune andando verso la foresta, qualcuno si premurava immediatamente di scoccare una freccia che si conficcava con un tonfo sordo nella sabbia davanti ai suoi piedi. Se quelli evidentemente nutrivano una cieca fiducia nella propria mira, Measure non ne aveva affatto, e l’idea che la freccia potesse deviare anche solo di un capello non lo divertiva affatto.

Quando ci pensava seriamente, Measure capiva benissimo che fuggire era un’idea assolutamente cretina, perché lo avrebbero riacchiappato in quattro e quattr’otto. Ma quello che non riusciva proprio a capire era perché non volessero lasciarlo andare. Non avevano niente da fargli fare. La sua presenza era del tutto inutile. Allo stesso tempo, giuravano che non avevano la minima intenzione di ammazzarlo, o anche solo di torturarlo un pochino.

Al quarto giorno in mezzo a quelle dune, tuttavia, decise di affrontare la faccenda di petto. Andò da Ta-Kumsaw e chiese esplicitamente di essere lasciato andare. Ta-Kumsaw parve scocciato, ma questo per lui era perfettamente normale. Stavolta, tuttavia, Measure non aveva intenzione di recedere.

«Non lo capisci che tenerci qui per voi è pura e semplice idiozia? Non è che siamo spariti senza lasciar traccia. A questo punto avranno sicuramente ritrovato i cavalli, col tuo nome scritto sopra per dritto e per rovescio.»

E per la prima volta Measure si rese conto che Ta-Kumsaw di quei cavalli non sapeva assolutamente nulla. «Il mio nome non è scritto su alcun cavallo.»

«Sulle selle, capo. Non lo sapevi? Quei Chok-Taw che ci avevano rapiti — ammesso che non fossero anche loro gente tua, cosa di cui non sono ancora del tutto sicuro — sulla sella del mio cavallo hanno inciso il tuo nome, e sulla sella del cavallo di Alvin quello del Profeta. Poi li hanno punzecchiati ben bene per farli correre. Quelle bestie saranno filate a casa come il vento.»

Il volto di Ta-Kumsaw parve offuscarsi, mentre i suoi occhi mandavano lampi. Volendo immaginare un dio del tuono, pensò Measure, ecco a chi potrebbe somigliare. «I Bianchi sicuramente penseranno che sono stato io a rapirli» disse Ta-Kumsaw.