In quel momento tuttavia, di fronte al ragazzo bianco, non erano meno sconcertati di Ta-Kumsaw. Era forse stato Ta-Kumsaw a prestare la sua forza al ragazzo? O era stata la terra, incredibilmente, a tendere la mano offrendo il proprio sostegno a un ragazzo bianco?
«È bianco come la sua pelle, o rosso nel cuore?» chiese uno dei guerrieri. Queste parole le pronunciò in shawnee, e non nella forma abbreviata di tutti i giorni, ma nella lingua sacra e lenta degli sciamani.
Con grande sorpresa di Ta-Kumsaw, Alvin rispose, senza più guardare nel vuoto ma portando lo sguardo su colui che aveva parlato. «Bianco» mormorò, in inglese.
«Allora capisce la nostra lingua?» chiese un secondo guerriero.
Alvin parve sconcertato da quella domanda. «Ta-Kumsaw» disse. Alzò lo sguardo per controllare l’altezza del sole. «È giorno. Mi sono addormentato?»
«Non ti eri addormentato» rispose Ta-Kumsaw in shawnee. Stavolta il ragazzo parve non capire affatto. «Non ti eri addormentato» ripeté Ta-Kumsaw in inglese.
«Ho la sensazione di essermi addormentato» fece Alvin. «Solo che mi ritrovo in piedi.»
«Non sei stanco? Non vuoi riposarti?»
«Stanco? Perché dovrei essere stanco?»
Ta-Kumsaw non si sentì in dovere di dargli spiegazioni. Se il ragazzo non sapeva che cosa aveva fatto, allora era un dono della terra. O forse in quel che il Profeta aveva detto di lui c’era del vero. Tenska-Tawa aveva detto che Ta-Kumsaw avrebbe dovuto insegnare ad Alvin a essere Rosso. Se era riuscito a tenere il passo di un gruppo di Shaw-Nee adulti in una corsa come quella senza mai cedere di un pollice, forse quel ragazzo, a differenza di qualsiasi altro Bianco, avrebbe potuto veramente imparare a sentire la terra.
Ta-Kumsaw si drizzò rivolgendosi ai suoi compagni. «Adesso andrò in città con quattro di voi.»
«E con il ragazzo» aggiunse un guerriero. Altri ripeterono le sue parole. Tutti quanti sapevano ciò che Tenska-Tawa aveva profetizzato a Ta-Kumsaw: che non sarebbe morto finché il ragazzo fosse stato al suo fianco. Anche se avesse avuto la tentazione di piantarlo in asso, loro non gliel’avrebbero permesso.
«E il ragazzo» acconsentì Ta-Kumsaw.
Detroit era un vero forte, niente di paragonabile alle patetiche palizzate di legno che si fregiavano dello stesso nome costruite dagli americani. I bastioni erano di pietra, come la cattedrale, con pezzi di artiglieria pesante puntati verso il fiume che collegava i laghi Huron e St. Clair con il lago Canada, e pezzi di artiglieria più leggera puntati verso l’entroterra, pronti a rintuzzare qualsiasi attacco nemico.
Ma a colpire Alvin e i suoi compagni non fu tanto il forte, quanto la città. Una decina di strade fiancheggiate da case di legno, botteghe e magazzini, e al centro una cattedrale così imponente da far scomparire la chiesa del reverendo Thrower. Preti dalle nere tonache volteggiavano per le vie come corvi in cerca di preda. I francesi, gente dal colorito scuro, non sembravano nutrire verso i Rossi l’ostilità spesso dimostrata dagli americani. Ta-Kumsaw capì che questo era dovuto al fatto che i francesi di Detroit non erano venuti in America con l’intenzione di stabilirvisi per sempre, e non consideravano i Rossi come rivali per il possesso della terra. I francesi in genere cercavano soltanto di trascorrere il tempo in attesa del momento di tornare in Europa, o quanto meno nelle regioni colonizzate dai Bianchi del Quebec e dell’Ontario, dall’altra parte del fiume; facevano naturalmente eccezione i cacciatori di pellicce, ma nemmeno per loro i Rossi erano nemici. I trapper generalmente nutrivano per i Rossi una sorta di timore reverenziale a causa della facilità con cui questi ultimi sembravano catturare la selvaggina. I Bianchi, che invece dovevano sputar sangue anche solo per capire dove collocare le trappole, pensavano ovviamente che sotto ci fosse qualche trucco, e che studiando a fondo il comportamento dei Rossi prima o poi anche loro avrebbero imparato il segreto. Ma questa naturalmente era una pia illusione. Com’era possibile che la terra potesse accettare gente che sterminava tutti i castori di un corso d’acqua solo per le loro pellicce, lasciando le carogne a marcire, e nemmeno un castoro per la riproduzione? Non c’era da meravigliarsi se l’orso ne faceva strage. Era la terra stessa a respingerli.
Quando avrò respinto i Bianchi oltre le montagne, pensò Ta-Kumsaw, caccerò gli Yankee dalla Nuova Inghilterra, e i Cavalieri dalle Colonie della Corona. E quando se ne saranno andati, penserò anche agli spagnoli della Florida e ai francesi del Canada. Oggi mi servo di voi per i miei scopi, ma domani scaccerò anche voi. Se in questa terra rimarrà una sola faccia bianca, apparterrà a un cadavere. E da quel giorno, i castori moriranno solo quando la terra dirà loro che è il momento di morire.
Al comando di Fort Detroit vi era ufficialmente de Maurepas, ma Ta-Kumsaw lo scansava il più possibile. Era solo col secondo in grado, Napoleone Bonaparte, che gli interessava parlare.
«Ho sentito dire che ti trovavi dalle parti del lago Mizogan» disse Napoleone. Naturalmente parlava in francese, ma Ta-Kumsaw aveva imparato quella lingua nello stesso periodo in cui imparava l’inglese, e dalla stessa persona. «Prego, siediti.» Napoleone osservò con qualche interesse il ragazzo bianco Alvin, ma non fece commenti.
«Sì, mi trovavo laggiù» confermò Ta-Kumsaw. «Insieme con mio fratello.»
«Ah. E c’era per caso anche un esercito?»
«Il seme di un esercito» rettificò Ta-Kumsaw. «Ho rinunciato a discutere con Tenska-Tawa. Per raccogliere un esercito dovrò ricorrere ad altre tribù.»
«Quando?» domandò imperiosamente Napoleone. «Vieni qui due o tre volte all’anno a raccontarmi che stai per avere un esercito. Lo sai quant’è che aspetto? Quattro anni, quattro miserabili anni di esilio.»
«Lo so» disse Ta-Kumsaw. «E avrai la tua battaglia.»
«Prima che mi vengano i capelli grigi? Voglio saperlo! Debbo forse morire di vecchiaia prima di vederti proclamare un’insurrezione generale dei Rossi? Sai bene che da solo sono del tutto impotente. La Fayette e de Maurepas mi impediscono di allontanarmi di più di cinquanta miglia, e si guardano bene dall’affidarmi delle truppe. ‘Prima vogliamo vedere un esercito’ dicono. Perché ci si possa scontrare in battaglia con gli americani, questi debbono raccogliere qualcosa di simile a un corpo d’armata. Ebbene, l’unico che può costringere quei miserabili bastardi malati d’indipendenza a farlo sei tu.»
«Lo so» disse Ta-Kumsaw.
«Mi hai promesso un esercito di diecimila Rossi, Ta-Kumsaw. E invece sento un gran parlare di una città di diecimila quaccher!»
«Non sono quaccheri.»
«Se rifiutano ogni forma di violenza, è esattamente la stessa cosa.» A un tratto la voce di Napoleone si fece soave, affettuosa, convincente. «Ta-Kumsaw, io ho bisogno di te, faccio conto su di te, non deludermi.»
Ta-Kumsaw rise. Napoleone aveva capito da molto tempo che se i suoi trucchi con gli uomini bianchi funzionavano, con i Rossi funzionavano molto meno, e con Ta-Kumsaw non funzionavano affatto. «A nessuno di noi due importa niente dell’altro» disse Ta-Kumsaw. «A te servono una battaglia e una vittoria, così da poter tornare a Parigi da eroe. A me servono una battaglia e una vittoria per incutere il terrore nel cuore dei Bianchi e raccogliere intorno a me un esercito sempre più numeroso di Rossi, che sotto il mio comando possano invadere le regioni del sud ricacciando gli inglesi oltre le montagne. Una battaglia e una vittoria… ecco perché lavoriamo insieme, e quando avremo raggiunto il nostro scopo, io non penserò più a te, come tu non penserai più a me.»