In lontananza si udì un’acclamazione.
Qualcuno arrivò di corsa. «Il governatore ha detto di finire il lavoro il prima possibile. Vuole che tu vada da lui immediatamente.»
«Faccio in un attimo» rispose Fink. «A parte bruciarlo.»
«Serbatelo per dopo» disse l’uomo. «Presto!»
Fink sbatté Measure a terra e gli pestò violentemente il torace frantumandogli le costole. Quindi lo prese per un braccio e per i capelli, lo sollevò di peso e gli staccò un orecchio con un morso. Measure se lo sentì strappar via con un ultimo disperato moto di rabbia. Quando Fink gli girò di scatto la testa, Measure udì il rumore del proprio collo che si spezzava. Fink lo scaraventò sul mucchio di patate. Measure rotolò giù dall’altra parte, finendo nella buca da lui stesso scavata. Solo quando ebbe la faccia affondata nel terriccio il dolore cessò e tutto si fece buio.
Fink richiuse la porta con un calcio, rimise la sbarra al suo posto e si diresse verso la casa. Le acclamazioni si fecero più forti. Fink incontrò Harrison proprio mentre questi usciva dal suo ufficio. «Quella faccenda la puoi lasciar perdere» disse Harrison. «Per riscaldare l’atmosfera non abbiamo più bisogno di cadaveri. Sono appena arrivati i cannoni. Attaccheremo domattina.»
Harrison si affrettò verso la veranda, seguito da Mike Fink. Cannoni? Che cosa c’entravano i cannoni col fatto di avere o no bisogno di un cadavere? Per che cosa l’aveva preso, Harrison, per un assassino? Ammazzare Hooch era una cosa; uccidere un uomo in leale combattimento un’altra. Ma uccidere un giovane imbavagliato era una cosa completamente diversa. Quando gli aveva staccato l’orecchio, aveva provato una strana sensazione. Non era un trofeo conquistato in leale combattimento. In quel momento, il cuore gli era venuto meno, tanto che non si era nemmeno preso la briga di staccargli l’altro orecchio.
Mike si fermò accanto a Harrison ed entrambi guardarono arrivare i quattro cannoni trainati ciascuno da un tiro di cavalli. Fink sapeva già che uso intendesse farne Harrison. L’aveva udito discutere il suo piano. Due da una parte, due dall’altra, in modo da prendere in mezzo la città dei Rossi. E caricati a mitraglia, per sbranare e lacerare i corpi dei Rossi, uomini, donne e bambini senza distinzione.
Non è il mio genere di combattimento, pensò Mike. Come quel tizio là sotto. Una cosa di tutto riposo, come schiacciare un ranocchio. Uno può farlo benissimo senza pensarci due volte. Ma poi non si può prendere il ranocchio, impagliarlo e appenderlo al muro, è una cosa che proprio non si fa.
Non è il mio genere di combattimento.
XIII
LA COLLINA OTTAGONALE
Nei pressi del fiume Licking la terra trasmetteva una sensazione diversa. Alvin non se ne rese conto immediatamente, anche perché correva — per così dire — a stoppino abbassato. Di ciò che gli stava attorno non si curava quasi per niente. Correre in quel modo era per lui come un lungo sogno ininterrotto. Tutt’intorno a sé, qualunque cosa il sogno gli mostrasse in quel momento, cominciò a scorgere scintille di un fuoco nero e profondo. Non come il nulla sempre in agguato ai margini del suo campo visivo. Non come quell’oscurità impenetrabile che risucchiava dentro di sé ogni raggio di luce, catturandolo per sempre. No, quel nero brillava, e mandava scintille.
E quando smisero di correre e Alvin tornò in sé, le fiammelle nere si abbassarono leggermente, ma non sparirono del tutto. Senza pensarci, Alvin si avvicinò a una di quelle fiammelle, un bagliore nero in un mare di verde, si chinò e la raccolse. Era una selce, bella grossa.
«Una selce da venti frecce» valutò Ta-Kumsaw.
«Brucia, ma è fredda. Brilla, ma è nera» fu il commento di Alvin.
Ta-Kumsaw annuì. «Vuoi veramente diventare un Rosso? Allora ti insegnerò a fabbricare le punte di freccia.»
Alvin imparò in fretta. Non era la prima volta che lavorava la pietra. Quando tagliava una macina da mulino, le superfici dovevano essere piane e lisce. Con la selce ciò che contava non erano le superfici, ma i bordi. Le prime due punte di freccia non gli vennero troppo bene, ma quei primi tentativi gli servirono a saggiare la struttura interna della pietra, le pieghe e le fratture naturali, delle quali servirsi per spezzarla. Arrivato alla quarta punta di freccia, non si servì più di un’altra pietra ma della semplice pressione delle dita, con cui staccò delicatamente la punta dal resto del pezzo di selce.
Il volto di Ta-Kumsaw era completamente inespressivo. Così lo vedevano i Bianchi per la maggior parte del tempo. Pensavano che i Rossi, e in particolar modo Ta-Kumsaw, non provassero mai niente, solo perché non lasciavano mai trasparire i loro sentimenti all’esterno. Ma Alvin l’aveva visto ridere e piangere, e assumere tutte le espressioni possibili a un essere umano. Perciò sapeva che quando il viso di Ta-Kumsaw non lasciava trapelare alcuna emozione era proprio perché stava provando un mucchio di cose.
«Ho già lavorato la pietra prima d’ora» gli confidò Alvin, come per chiedere scusa.
«La selce non è pietra» ribatté Ta-Kumsaw. «I ciottoli dei fiumi, i macigni, quella è pietra. Questa è roccia vivente, roccia di fuoco, dura terra che la terra ci offre spontaneamente. Non abbiamo bisogno di strappargliela a forza, come fanno i Bianchi col ferro.» Alzò la quarta punta di freccia, quella che Alvin aveva staccato con le dita dal pezzo di selce. «L’acciaio non avrà mai un filo così tagliente.»
«Non credo di aver mai visto un filo così perfetto» disse Alvin.
«Nemmeno un segno o un’intaccatura» confermò Ta-Kumsaw. «Nel vedere questa punta, un uomo rosso direbbe che è stata la terra stessa a crearla così.»
«Ma tu sai com’è andata» replicò Al. «Sai che ho questo dono.»
«Un dono piega la terra» disse Ta-Kumsaw. «Come un tronco sommerso in un fiume fa ribollire la superficie dell’acqua. La terra fa lo stesso, quando un Bianco usa i suoi doni. Ma non quando lo fai tu.»
Alvin ci meditò su per qualche istante. «Vuoi dire che quando qualcuno fa uno scongiuro, getta un incantesimo o esercita la rabdomanzia, tu riesci a sentirlo?»
«Come il puzzo di un malato che si libera l’intestino» affermò Ta-Kumsaw. «Ma tu… quello che fai tu è pulito. Come se facesse parte della terra. Avevo creduto di poterti aiutare a diventare un Rosso. Invece è la terra stessa a concederti le punte di freccia. Come se volesse farti un dono.»
Di nuovo, Alvin ebbe la sensazione di dovergli chiedere scusa. In qualche modo Ta-Kumsaw sembrava irritato dalle cose che lui riusciva a fare. «Non è che l’abbia chiesto a nessuno» disse. «Mi è semplicemente capitato di essere il settimo figlio maschio di un settimo figlio maschio, e il tredicesimo figlio dei miei genitori.»
«Questi numeri — sette, tredici — a cui voi Bianchi date tanta importanza! Per la terra è come se non esistessero. I veri numeri sono quelli che la terra stessa ci dà. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… questi sono i numeri che vediamo intorno a noi nella foresta. Dov’è il sette? Dov’è il tredici?»
«Forse è per questo che sono così potenti» azzardò Alvin. «Forse è proprio perché non sono naturali.»
«Se questo tuo dono è innaturale, perché mai la terra dovrebbe apprezzarlo?»
«Non lo so, Ta-Kumsaw. Ho solo dieci anni, e vado per gli undici.»
Ta-Kumsaw rise. «Dieci? Undici? Sono numeri molto deboli.»
Lì trascorsero la notte, ai confini della Terra delle Selci. Ta-Kumsaw narrò ad Alvin la storia di quel luogo, dove si trovavano le selci migliori della terra. Per quante selci uno si portasse via, dal terreno ne uscivano di nuove, e bastava chinarsi per raccoglierle. In passato, ogni tanto qualche tribù aveva cercato di impadronirsi di quel luogo inviando i suoi guerrieri a occuparlo con l’incarico di uccidere chiunque vi si recasse in cerca di selci. In quel modo la tribù sarebbe stata l’unica a poter disporre di punte di freccia. Ma la cosa non aveva mai funzionato. Non appena la tribù vittoriosa s’impossessava di quel luogo, le selci immediatamente scomparivano senza lasciare la minima traccia. I guerrieri perlustravano il terreno a palmo a palmo senza trovare nulla. Allora se ne andavano, e quando un’altra tribù capitava da quelle parti scopriva che le selci erano tornate, numerose come prima.