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Ringhiando, annusò attorno alla base dell’albero. Sollevò una gamba e lo segnò con un getto di urina. Un ramo basso gli sfiorò il muso. Lui l’addentò, contorcendo il muso, mentre il ramo si spezzava, e veniva strappato via. Aveva le fauci piene di aghi di pino, del gusto acre della resina. Scosse il capo e ringhiò di nuovo.

Suo fratello era seduto sulle zampe posteriori. Sollevò il muso ed emise un lungo ululato, carico di nera sofferenza. Non poteva essere; loro non erano scoiattoli e non erano cuccioli di uomo. Non erano in grado di salire su per i tronchi degli alberi, aggrappandosi con soffici zampe rosate e goffi piedi. Loro erano corridori, cacciatori, predatori.

Da qualche parte nella notte, oltre la pietra che li circondava, i cani si svegliarono e iniziarono ad abbaiare. Uno, e poi un altro, e poi un altro ancora, e poi tutti quanti. Un concerto assordante. E anche loro, intrappolati nel parco degli dei lo sentirono: l’odore del nemico, e della paura.

Una furia disperata dilagò dentro di lui, torrida come la fame. Corse via dalle mura, allontanandosi tra gli alberi, con le ombre dei rami e delle chiome che danzavano sulla sua pelliccia… Si girò, corse nuovamente indietro. Le sue zampe volarono sul terreno, sollevando getti di foglie bagnate e aghi di pino. Per un breve momento fu un cacciatore, e un grande cervo stava fuggendo davanti a lui. Per un breve momento, poté quasi vedere la sua preda, percepirne l’odore. Il ritmo della sua corsa crebbe. Divenne possente, imperioso. L’odore della paura stava facendo martellare il suo cuore. La bava ribolliva nelle sue fauci. Raggiunse l’albero-sentinella, spiccò un balzo. Cominciò a scalare il tronco, gli artigli affondavano nella corteccia alla ricerca di appigli. Continuò a salire. Uno, due, tre balzi ascendenti, senza rallentare fino a quando giunse alle ramificazioni inferiori. Poi rami più sottili s’impigliarono tra le sue zampe, altri lo frustarono sul muso, negli occhi. Aghi di colore grigio-verde si dispersero mentre lui si apriva la strada tra di essi, e le sue spalle spezzavano altri rami. Fu costretto a rallentare ancora di più. Qualcosa si attorcigliò intorno a una delle sue zampe posteriori. Lui si divincolò con un strappo, ringhiando di ferocia. Sotto di lui, il tronco si restrinse. La salita adesso era ripida, quasi verticale e viscida di pioggia. Nell’artigliare la corteccia, la vide rompersi come fragile pelle d’animale. Era a un terzo della strada, a metà strada. Il tetto era vicino, molto vicino. Mise giù una zampa, la sentì scivolare all’improvviso sulla curva umida del tronco… E di colpo si ritrovò a scivolare indietro, annaspando. Ululò di paura e ululò di furore. Continuò a cadere, a cadere! Il terreno salì verso di lui, come per spezzarlo in due…

Brandon Stark si contorse nel letto, tornando brutalmente alla coscienza. Era attorcigliato in un groviglio di coperte, aveva il respiro affannoso.

«Estate» chiamò ad alta voce. «Estate!…»

Aveva male a una spalla, come se l’avesse picchiata cadendo. Ma sapeva che si trattava dell’eco spettrale di ciò che il lupo stava percependo. “Jojen ha detto la verità. Per metà io sono una belva.” Da fuori, continuava ad arrivare il debole abbaiare dei cani. “Il mare è arrivato a Grande Inverno. Sta dilagando oltre le mura, proprio come Jojen ha visto.”

Bran si afferrò alla sbarra di metallo sopra il letto e si tirò su, chiamando per ottenere aiuto. Non venne nessuno. E, dopo un momento, ricordò che nessuno sarebbe venuto. L’uomo di guardia fuori della sua porta non c’era più, ser Rodrik aveva preso tutti gli uomini validi su cui era riuscito a mettere le mani. A Grande Inverno era rimasta solo una guarnigione simbolica.

Tutti gli altri se ne erano andati otto giorni prima, seicento uomini da Grande Inverno e dai fortini circostanti. Cley Cerwyn stava guidando altri trecento uomini a incontrarli lungo la strada, e maestro Luwin aveva inviato molti corvi messaggeri per radunare altre truppe provenienti da Porto Bianco, dalla terra delle tombe dei Primi Uomini, addirittura da luoghi sperduti nel cuore della foresta del lupo. Piazza di Thorren era stata attaccata da un mostruoso signore della guerra chiamato Dagmer Mascella spaccata. La Vecchia Nan diceva che non poteva essere ucciso. Una volta un avversario gli aveva diviso il cranio in due con un colpo d’ascia, ma Dagmer era un essere talmente rude da aver premuto insieme le due metà e averle tenute una contro l’altra fino a quando non si erano rinsaldate. “Che Dagmer abbia vinto?” Piazza di Thorren era a molti giorni di cavallo da Grande Inverno, eppure…

Bran si sollevò dal letto, muovendosi da una barra all’altra fino a raggiungere la finestra. Le sue dita annasparono un po’ mentre spalancava le imposte. Il cortile del castello era vuoto, tutte le finestre oscurate. Grande Inverno dormiva.

«Hodor!» gridò verso il basso, con quanto fiato aveva in corpo. Hodor dormiva sopra le stalle, ma forse, se lui avesse urlato abbastanza forte, avrebbe sentito. E se non Hodor, qualcun altro. «Hodor! Vieni, presto! Osha! Meera, Jojen! Qualcuno!…» Bran si portò entrambe le mani ai lati della bocca. «Hooooooooodooooooor!»

La porta alle sue spalle si aprì di schianto. Qualcun altro entrò. Solo che non si trattava di nessuno che Bran conoscesse. L’individuo indossava un corpetto di cuoio su cui era cucita una specie di corazza fatta di dischi di ferro sovrapposti. In mano stringeva un pugnale, e di traverso sulla schiena aveva un’ascia da guerra.

«Che cosa vuoi?» di colpo, Bran ebbe paura. «Questa è la mia stanza. Vattene fuori di qui.»

Theon Greyjoy irruppe nelle stanza alle spalle del primo guerriero: «Non vogliamo farti del male, Bran».

«Theon?» il sollievo quasi diede a Bran le vertigini. «È Robb che ti manda? È qui anche lui?»

«Principe Theon. Adesso, Bran, siamo principi tutti e due, tu e io. Chi lo avrebbe mai immaginato, eh?»

«Immaginato cosa?»

«Che io prendessi il tuo castello, mio principe.»

«Prendere… Grande Inverno?» Bran scosse il capo. «Non… Non puoi averlo fatto.»

«Lasciaci soli, Werlag» ordinò Theon. L’uomo con il pugnale e la corazza con i dischi di ferro si ritirò. Theon si sedette sul letto. «Ho mandato quattro dei miei uomini a scalare le mura con rampini e funi. Sono stati loro ad aprire la porta della garitta per far entrare gli altri. I miei guerrieri adesso stanno finendo la battaglia contro la tua guarnigione. Hai la mia parola: Grande Inverno adesso è mia!»

Bran non riusciva a comprendere: «Ma tu sei il protetto di mio padre».

«Ora tu e tuo fratello siete i miei protetti. Quando i combattimenti saranno finiti, i miei uomini raduneranno la tua gente nella Sala Grande. Tu e io parleremo davanti a tutti. Tu dirai che ti sei arreso a me, e che Grande Inverno è mia. Ordinerai di servirmi e obbedirmi come loro nuovo lord.»

«No, non lo farò» rispose Bran. «Ti combatteremo e ti sbatteremo fuori, invece. Non mi arrenderò mai. E tu non potrai farmi dire che l’ho fatto.»

«Questo non è un gioco, Bran, per cui non fare il ragazzino con me. Non ho intenzione di tollerarlo. Il castello è mio, ma questa gente è ancora tua. E se il principe vuole che a loro non venga fatto del male, allora il principe farà quanto gli viene ordinato.» Theon si alzò e andò alla porta. «Qualcuno verrà a vestirti e a portarti nella Sala Grande. Pensa bene a quello che dirai, Bran.»

L’attesa che seguì rese Bran ancora più agitato. Rimase sul sedile vicino alla finestra, osservando le torri oscure, le mura nere come ombre. A un certo punto, credette di udire delle grida levarsi da dietro il corpo di guardia, e forse un suono che avrebbe potuto essere un cozzare di spade. Solo che non aveva le orecchie di Estate, né il suo olfatto. “Da sveglio, sono ancora diviso. Ma dormendo, quando sono Estate, posso sentire odore e udire suoni, correre e combattere.”