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«Sto facendo il pane per domattina» si lamentò Frittella. «E poi a me non piace quando è tutto buio, te l’ho già detto.»

«Io ci vado. Ti dico dopo. Me la dai una pasta o no?»

«No.»

Ma Arya ne prese una comunque. Se la mangiò uscendo dalle cucine. Era ripiena di nocciole tritate e frutta e formaggio, la crosta croccante ancora tiepida dal forno. Mangiare una delle paste di ser Amory la fece sentire temeraria. “Piede nudo, piede sicuro, piede leggero” canticchiò sottovoce. “Sono io il fantasma di Harrenhal.”

Il suono del corno da guerra aveva strappato la fortezza al suo sonno. Erano molti gli uomini che scendevano nel cortile per capire che cosa stesse accadendo. Arya si mescolò tra loro. Una colonna di carri trascinati da buoi stava scorrendo sotto la grata. “Razziatori” si rese subito conto Arya. I cavalieri che scortavano i carri parlavano troppe lingue strane. Sotto i raggi della luna, le loro armature apparivano livide. Arya notò due di quegli strani cavalli a strisce bianche e nere. “I Guitti sanguinari!…” D’istinto, si ritirò dove le tenebre erano più fitte. Rimase a osservare mentre veniva trasportato dentro anche un gigantesco orso nero, chiuso in una gabbia d’acciaio nel retro di uno dei carri. Altri carri erano carichi di argenteria, armi, scudi, sacchi di farina, stie di maiali urlanti, cani macilenti, polli. Arya stava cercando di ricordare da quanti secoli non assaggiava più una fetta di arrosto di maiale quando apparvero i primi prigionieri.

Dal modo orgoglioso e fiero in cui teneva la testa alta, l’uomo che apriva la marcia doveva essere un lord. La sua maglia di ferro scintillava sotto la tunica lacera di colore rosso. Arya credette che fosse un Lannister, ma poi l’uomo entrò nell’alone di una torcia. Il suo emblema era un pugno d’argento, non un leone. Aveva i polsi strettamente legati. Una fune annodata alla caviglia lo univa all’uomo dietro di lui, e questi a sua volta a quello dopo, e a quello dopo ancora. L’intera colonna era costretta ad arrancare a uno strano passo sussultorio. Molti dei prigionieri erano feriti. Se uno di loro si fermava, un cavaliere arrivava al trotto ad assestargli un secco colpo di frusta per farlo muovere di nuovo. Arya cercò di farsi un’idea di quanti fossero quei prigionieri, ma a cinquanta perse il conto. Dovevano essere per lo meno il doppio. I loro abiti erano incrostati di fango e sangue. Nella luce baluginante delle torce, era difficile distinguere emblemi e sigilli. Arya però ne riconobbe alcuni: torri gemelle, vampata solare, uomo insanguinato, ascia da guerra. “L’ascia da guerra è dei Cerwyn, e il sole bianco su sfondo nero è dei Karstark. Questi sono uomini del Nord. Uomini di mio padre… e di Robb.” Non volle pensare a che cosa questo potesse significare.

I Guitti sanguinari cominciarono a smontare. Ragazzi di stalla assonnati si trascinarono fuori dai loro letti di paglia per andare a occuparsi dei loro cavalli coperti di schiuma. Uno dei mercenari chiedeva birra a gran voce. Tutti quei rumori portarono anche ser Amory Lorch a fare la sua comparsa sul ponte coperto al di sopra del cortile. Ai suoi lati, c’erano due uomini che reggevano delle torce.

Vargo Hoat, il capo dei Guitti sanguinari, con l’elmo a testa di caprone, fece fermare il cavallo sotto la galleria: «Mio lord caschtellano.» Il mercenario parlava in modo strascicato, distorto, come se avesse la lingua troppo grossa per stargli tutta quanta in bocca.

«Che cosa accade, Hoat?» chiese ser Amory con la fronte aggrottata.

«Prischogneri. Roosh Bolton pensava di attraversare il fiume, ma i miei Bravi Camerati gli hanno tagliato la sua avanguardia in pesschi. Uccisi tanti e poi Bolton schcappa. Queschto qua è il loro lord comandante, Glover. E quello dietro è scher Aenysch Frey.»

Gli occhietti porcini di ser Amory esaminarono la fila dei prigionieri. Ad Arya, non parve che lui fosse compiaciuto. Tutti al castello di Harrenhal sapevano che Lorch e Hoat si odiavano a morte.

«Molto bene» disse alla fine ser Amory. «Ser Cadwyn, porta questi uomini nelle segrete.»

L’uomo con il simbolo del pugno argenteo sulla tunica alzò lo sguardo: «Ci era stato promesso di essere trattati in modo onorevole…».

«Schilenschio!» sputacchiò Vargo Hoat.

«Qualsiasi cosa Hoat vi abbia promesso, non significa nulla per me» berciò ser Amory dall’alto. «Lord Tywin ha nominato me castellano di Harrenhal, e io farò come mi pare e piace.» Fece un cenno alle guardie. «La cella grande sotto la Torre della Vedova dovrebbe bastare a contenerli tutti. Chiunque di voi non voglia andarci, si ritenga libero di crepare qui fuori.»

Gli uomini di Lorch condussero via i prigionieri, spingendoli con le punte delle lance. Arya vide Occhio moscio apparire alla base della scala, ammiccando nel chiarore delle torce. Se avesse scoperto che lei se n’era andata in giro, le avrebbe gridato dietro, minacciando di spellarle la schiena a frustate. Arya però non aveva paura. Occhio moscio non era Weese. Stava sempre a sbraitare e a minacciare di spellare la schiena a frustate a questo e a quello, ma lei non lo aveva mai visto colpire nessuno. In ogni caso, era meglio che lui non la vedesse. Arya diede un’occhiata in giro. I finimenti stavano venendo rimossi dai buoi, i carri scaricati, mentre i Bravi Camerati di Vargo Hoat chiedevano da bere. Parecchi curiosi si erano radunati attorno alla gabbia con dentro l’orso. In tutta quella confusione, non le fu difficile sgattaiolare via. Rientrò nella fortezza per la stessa strada che aveva percorso all’andata, cercando di restare fuori vista, per evitare che qualcuno la notasse e le desse qualche lavoro da fare.

Lontano dalle porte e dalle stalle, Harrenhal era per la maggior parte deserta. I suoni si affievolirono dietro di lei. Il vento soffiava rabbioso, traendo strani ululati dalle crepe nella Torre dei Lamenti. Dagli alberi del parco degli dei avevano cominciato a cadere le foglie. Arya poteva udire il loro fruscio mentre scivolavano lungo il selciato dei vari cortili interni. Adesso che la fortezza maledetta era nuovamente vuota, il suono giocava strani scherzi. A volte, le pietre stesse sembravano inghiottire qualsiasi rumore, immergendo Harrenhal in un sudario di silenzio. Altre volte, gli echi parevano acquistare una vita propria. Così ogni passo si tramutava nel ritmo di marcia di un esercito fantasma, e ogni voce remota diventava un cantico di spettri. Tutte cose che a Frittella facevano paura, ma non ad Arya Stark.

Silenziosa come un’ombra, scivolò lungo il ponte di mezzo, attorno alla Torre del Terrore. Superò grandi uccelliere dove, secondo alcuni, gli spiriti dei falconi morti agitavano l’aria con le loro ali fantasma. Arya poteva andare dove voleva. La guarnigione era composta da un centinaio di uomini al massimo, talmente pochi da perdersi nella vastità della fortezza. La Sala dei Cento Focolari era stata chiusa. Lo stesso valeva per parecchi altri edifici secondari, inclusa la Torre dei Lamenti. Ser Amory Lorch stava nella residenza del castellano, situata nella Torre del Rogo del Re, spaziosa quanto quella di un lord. Arya e gli altri servi erano stati trasferiti nelle cantine sottostanti, in modo da essere opportunamente a disposizione. Quando lord Tywin aveva abitato a Harrenhal, c’era sempre qualcuno armato che voleva sapere chi eri e dove andavi. Ma ora, con solo un centinaio di uomini lasciati a sorvegliare più di mille porte, nessuno sembrava sapere chi dovesse trovarsi dove. Né sembrava importare granché.

Nel superare l’armeria, Arya udì il pestare ritmico di un martello. Una luce arancione scuro pulsava da dietro le alte finestre. Arya scalò fino al tetto e diede una sbirciata. Gendry stava rifinendo una corazza pettorale. Quando lavorava, per lui non esisteva altro se non il metallo, il mantice e la fiamma. Il martello era come un’estensione del suo braccio. Arya rimase a fissare il gioco dei muscoli che guizzavano sotto la pelle del suo poderoso torace, ascoltando il canto dell’acciaio. “È forte” non poté fare a meno di pensare. Gendry si munì di un paio di pinze dal manico lungo per immergere la corazza nel bagno di tempera. Arya s’infilò dalla finestra e saltò giù, atterrando accanto a lui.