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JON

Potevano vedere il fuoco ardere nelle tenebre della notte. Scintillava sul fianco della montagna, simile a una stella caduta sulla terra. Bruciava più rosso delle stelle, però, e non tremolava. A tratti, le fiamme pulsavano più vivide, tornando poi ad affievolirsi fino a una tenue scintilla, debole e remota.

“Un chilometro più avanti, ottocento metri più in alto” valutò Jon. “Una posizione perfetta per individuare qualsiasi cosa si muova sul passo.”

«Sentinelle sul Passo Skirling» ipotizzò il più anziano del gruppo. Nella primavera della sua gioventù, era stato lo scudiero di un qualche re. I confratelli in nero lo chiamavano ancora Scudiero Dalbridge. «Di che cosa ha paura Mance Rayder, questo mi chiedo.»

«Se sa che hanno acceso un fuoco, li scuoia, quei poveri bastardi» commentò Ebben, tozzo, calvo, con la muscolatura dura come la pietra.

«Il fuoco è vita quassù» disse Qhorin il Monco. «Ma può anche trasformarsi in morte.»

Da quando si erano inoltrati tra le montagne, Qhorin aveva dato ordine preciso di evitare qualsiasi fuoco. Mangiavano manzo salato freddo, pane duro, formaggio ancora più duro. Dormivano vestiti, sotto mucchi di mantelli e di pellicce, grati di condividere il calore che emanava dai loro corpi. Jon ricordava le gelide notti di molto tempo prima, a Grande Inverno, quando dormiva nello stesso letto con i suoi fratelli. Anche questi uomini erano fratelli, per quanto il loro letto adesso era la dura terra.

«Avranno un corno» disse Stonesnake.

«Che non dovranno suonare» affermò il Monco.

«È una lunga salita da farsi di notte» Ebben continuava a scrutare il fuoco lontano attraverso una spaccatura nella roccia dietro cui si erano riparati.

Il cielo era privo di nubi. Le montagne frastagliate si alzavano di un nero compatto, monolitico. Le loro cime assediate dalla neve e dal ghiaccio scintillavano livide sotto la luce della luna.

«E una caduta ancora più lunga» disse Qhorin. «Due uomini, penso. E lassù, a fare i turni di guardia, ce ne saranno altri due.»

«Vado io.» Il ranger chiamato Stonesnake, serpente di pietra, aveva già dato prova di essere il miglior scalatore del gruppo. Doveva essere lui a farlo.

«Anch’io» si offrì Jon Snow.

Qhorin il Monco lo osservò. Jon poteva udire sibilare il vento tra le formazioni rocciose alle quote più elevate del passo sopra di loro. Uno dei cavalli nitrì, percuotendo con lo zoccolo il suolo sassoso della nicchia in cui avevano trovato rifugio.

«Il tuo lupo resterà con noi» decise il Monco. «La sua pelliccia bianca è troppo visibile di notte.» Si girò verso Stonesnake. «Quando avrete finito, gettate in basso un legno in fiamme. Quando lo avremo visto cadere, verremo.»

«Il momento migliore per muoversi è adesso» annuì Stonesnake.

Lui e Jon si munirono entrambi di un lungo rotolo di fune. Stonesnake portava anche una sacca di pioli di ferro e una piccola mazza, con la testa di metallo avvolta in uno spesso panno di feltro. Indietro lasciarono destrieri, elmi, maglie di ferro. E Spettro. Jon mise un ginocchio a terra e lasciò che il meta-lupo albino strofinasse il naso contro il suo volto. «Tu resta» gli ordinò. «Tornerò a prenderti.»

Stonesnake aprì il cammino. Era un uomo segaligno e basso di statura, sulla cinquantina, con la barba grigia. Ma era più forte di quanto apparisse, e di notte i suoi occhi ci vedevano meglio di quelli di chiunque altro Jon avesse mai conosciuto. Quella notte, tutti e due ne avrebbero avuto molto bisogno. Durante il giorno, le montagne erano blu e grigie, spruzzate di ghiaccio, ma quando il sole svaniva dietro l’orizzonte, tutto diventava nero. Adesso, la luna sorgente ammantava i picchi di bianco e d’argento.

I due confratelli neri salirono tra le ombre nere al di là di rocce nere, procedendo lungo un sentiero ripido e contorto, il loro respiro si condensava nell’aria nera. Senza maglia di ferro, Jon si sentiva nudo, ma certo non sentiva la mancanza del peso di tutto quel metallo. Era una marcia dura, lenta. Fare più in fretta significava rischiare di spezzarsi una caviglia, o anche peggio. Stonesnake sembrava sapere dove mettere i piedi come per istinto, ma su quel terreno roccioso, diseguale, Jon era costretto a muoversi con maggiore cautela.

In realtà, il Passo Skirling non era uno ma una serie di passi. Un lungo, contorto percorso che si snodava attorno a una successione di picchi congelati e scavati dal vento, di gole nascoste nelle cui profondità la luce del sole era quasi sconosciuta. Lasciata la foresta dopo che si erano inoltrati tra le cordigliere, Jon non aveva visto altro segno di vita all’infuori dei suoi compagni. Gli dei avevano creato pochi luoghi crudeli e ostili all’uomo quanto gli Artigli del Gelo. Di giorno, il vento tagliava come una lama. Di notte, urlava come una madre che piange la morte violenta dei suoi figli. Quei pochi alberi che incontrarono erano creature mutilate e grottesche, che spuntavano in obliquo da crepacci e fenditure. Spesso, sulla pista si protendevano cornicioni e speroni di roccia irti di stalattiti di ghiaccio. A distanza, parevano zanne livide.

Eppure, Jon non si pentì di essere là. Non c’erano solo pericoli, tra gli Artigli del Gelo, ma anche meraviglie. Aveva visto la luce del sole scintillare su esili cascate d’acqua gelida che scendevano da pareti verticali di roccia. Aveva ammirato un alpeggio alto pieno di fiori selvatici d’autunno, bocche di lupo azzurre e scarlatti gigli di fuoco che punteggiavano prati di erba spesso ocra e oro. Aveva scrutato nel ventre oscuro di crepacci talmente profondi da sembrare voragini aperte direttamente sugli inferi. Era passato su un ponte naturale di pietra con nient’altro che il cielo da entrambi i lati. A quelle altezze le aquile facevano i loro nidi, da lì calavano a cacciare nelle valli, roteando senza sforzo sulle ampie ali grigie e azzurre, quasi facessero esse stesse parte del cielo. Aveva osservato una pantera-ombra tendere un agguato a un ariete, scivolando giù per il fianco della montagna come del fumo liquido, fino a quando non era venuto il momento di balzare all’attacco.

“Adesso è il nostro momento di attaccare.”

Jon Snow avrebbe voluto potersi muovere sicuro e silenzioso come una pantera-ombra, e saper uccidere con la stessa rapidità. Portava Lungo artiglio nel fodero di traverso sulla schiena, ma forse non ci sarebbe stato spazio sufficiente per maneggiarla. Aveva con sé anche il pugnale e la daga, qualora lo scontro si fosse verificato a distanza ravvicinata. “Anche loro saranno armati, e io sono senza corazza.” Si domandò chi sarebbe stato la pantera-ombra e chi l’ariete, quando quella notte fosse finita.

Percorsero il sentiero molto a lungo, seguendone ogni svolta, ogni contorsione nel suo sviluppo serpentino sul fianco della montagna. In alto, sempre più in alto. A tratti, la montagna si ripiegava su se stessa, facendo perdere loro di vista il fuoco. In ogni caso, prima o poi, le fiamme riapparivano sempre. Nessun cavallo ce l’avrebbe mai fatta a inerpicarsi sulla pista che Stonesnake aveva scelto. In certi punti, Jon fu costretto a schiacciarsi con la schiena contro la parete rocciosa, avanzando di lato, centimetro dopo centimetro, come un granchio. Perfino là dove il sentiero era più largo, il pericolo restava presente, incombente. C’erano fenditure ampie abbastanza da inghiottire tutta la gamba di un uomo. C’erano avvallamenti pieni d’acqua che di notte si tramutavano in placche di duro ghiaccio. “Un passo. Un altro passo” ripeté Jon a se stesso “e non cadrai.”

Non si radeva da quando aveva lasciato il Pugno dei Primi Uomini insieme a Qhorin e agli altri confratelli della Torre delle Ombre. In breve, la peluria sul suo labbro superiore si era incrostata di ghiaccio. Dopo due ore di scalata, il vento aumentò brutalmente d’intensità, al punto che Jon poté solo aggrapparsi alla roccia e pregare di non essere spazzato vìa nel nulla. “Un passo. Un altro passo.” La violenza dell’aria si calmò e lui riprese a muoversi. “Un passo. Un altro passo, e non cadrai.”