«E se l’avessi uccisa?»
«Lei sarebbe morta, e io comunque ti conoscerei meglio di prima. Abbiamo parlato abbastanza. Ora cerca di dormire. Abbiamo molte leghe da percorrere e pericoli da affrontare. Ti servirà tutta la tua forza.»
Jon dubitava che il sonno sarebbe venuto facilmente, ma sapeva anche che il Monco aveva ragione. Trovò un punto riparato dal vento, al di sotto di un grande sperone di roccia. Si tolse la cappa in modo da usarla come coperta.
«Spettro» chiamò. «Qui. Da me.»
Jon dormiva sempre meglio con il grande lupo albino accanto a sé. C’era qualcosa di confortante nel suo odore ferale, nel calore che emanava dal suo bianco pelo arruffato. Ma questa volta, Spettro si limitò a dargli una rapida occhiata. Poi si voltò, aggirò il gruppo dei cavalli e svanì chissà dove. “Vuole cacciare” si disse Jon. Potevano esserci delle capre su quelle montagne. Le pantere-ombra dovevano pure nutrirsi di qualcosa.
«Cerca solo di non prendertela con uno di quei gatti» borbottò Jon. Un simile confronto sarebbe stato pericoloso perfino per un meta-lupo. Jon si raccolse nel mantello e si sistemò sotto la roccia.
Sognò un sogno di lupi.
Erano cinque, mentre avrebbero dovuto essere sei. Ed erano sparpagliati, lontani l’uno dall’altro. Percepì un vuoto profondo, un senso di cupa incompletezza. La foresta era enorme e fredda, e loro erano così piccoli, così sperduti. I suoi fratelli si trovavano da qualche parte là fuori, e anche sua sorella, ma lui aveva smarrito il loro odore. Sedette sulle zampe posteriori, sollevando il muso al cielo che imbruniva. Il suo ululato echeggiò nella foresta, solitario, lamentoso. Mentre gli echi del richiamo svanivano, drizzò le orecchie, rimanendo in attesa di una risposta. Ma l’unica risposta fu il sospiro della neve vorticosa.
“Jon?”
Arrivò da dietro di lui, più impercettibile di un sussurro, eppure forte. Può un urlo essere silenzioso? Voltò il capo, alla ricerca di suo fratello, della fugace visione di una scattante forma grigia in movimento nella foresta. Ma non c’era niente, soltanto…
Un albero-diga.
Pareva crescere dalla solida roccia, le radici pallide salivano a contorcersi da una miriade di fenditure, di crepe esili come tagli. Era snello rispetto ad altri alberi-diga che aveva visto, poco più di un germoglio. Ma mentre l’osservava, la pianta continuava a crescere, i rami s’ingrossavano, protendendosi verso il cielo. Cautamente, aggirò il tronco finché non si trovò di fronte al volto scolpito. Degli occhi rossi lo fissavano. Occhi pieni di dura fierezza, eppure lieti di vederlo. Il volto nell’albero-diga era il volto di suo fratello. Ma suo fratello li aveva sempre avuti quei tre occhi?
“Non sempre”, il grido silenzioso tornò. “Non prima del corvo.”
Annusò la corteccia livida. Sentì odore di lupo e d’albero e di ragazzo. Ma dietro di loro c’erano anche altri odori. Quello ricco, scuro della terra calda, e la ruvida presenza grigia della pietra. E poi qualcosa d’altro. Un odore nero, terribile. Morte, stava percependo l’odore della morte. Arretrò di colpo, con il pelo che gli si rizzava sulla schiena, scoprendo le zanne.
“Non avere paura. Mi piace il buio. Loro non possono vederti, ma tu puoi vedere loro. Prima, però, devi aprire gli occhi. Vedi? Così…”
L’albero si protese verso di lui e lo toccò.
Di colpo, fu di nuovo in cima alla montagna. Le sue zampe affondarono in un cumulo di neve. Era immobile sull’orlo di una voragine. Davanti a lui, il passo Skirling si spalancava su un vuoto pieno di vento. Più in basso, simile a una trapunta colorata, si apriva una lunga valle a V, immersa nei colori di un pomeriggio d’autunno.
L’estremo più lontano della valle era sbarrato da una parete bianco azzurra, che premeva contro le montagne come se le avesse appena spinte da parte a forza. Per un momento, credette di essere tornato al Castello Nero, alla Barriera. Ma quella non era la Barriera, era un fiume di ghiaccio alto forse migliaia di metri. Sotto l’immane parete gelida si allargava un grande lago, le acque blu cobalto riflettevano i picchi incappucciati di neve tutto attorno. C’erano degli uomini sul fondo della valle, adesso poteva vederli. Molti uomini, migliaia, un gigantesco esercito. Alcuni di loro stavano scavando enormi buchi nella terra semicongelata, altri si addestravano alla guerra. Guardò una brulicante massa di cavalieri, in sella a cavalli non più grandi di formiche, andare all’assalto di un muro di sbarramento. I rumori della battaglia erano come un fruscio di foglie d’acciaio che stormivano debolmente nel vento. Non c’era alcuna costruzione nell’accampamento, né trincee, né barriere di rostri, né precise linee di cavalli. Rozzi rifugi di terra e tende di pelli crescevano da tutte le parti in modo caotico, simili a vesciche che punteggiavano la faccia della terra. Individuò mucchi di fieno, sentì odore di capre e di pecore, di cavalli e di maiali, di un gran numero di cani. Tentacoli di fumo scuro si levavano da migliaia di bivacchi.
“Questo non è un esercito, e neanche una città. Questa è l’adunata di un intero popolo.”
Dall’altra parte del lago, uno dei cumuli si mosse. Osservò con più attenzione. Non si trattava di terra, era qualcosa di vivo. Una bestia colossale, coperta di una folta pelliccia marrone, con il naso che pareva un grosso serpente e le zanne addirittura più imponenti, di quelle del cinghiale più grande mai esistito. Anche la creatura che c’era sopra era colossale, e la sua forma era tutta sbagliata, le gambe troppo tozze, i fianchi troppo larghi per essere un uomo.
Una raffica di vento gelido gli sollevò il pelo. Nell’aria si sentì un forte sbattere di ali. Alzò gli occhi sulle incombenti montagne coperte di ghiaccio. Un urlo lacerante parve squarciare il cielo. Penne blu e grigie, sempre più grandi, oscurarono il sole…
«Spettro!» urlò Jon rizzandosi a sedere. Poteva sentire gli artigli, il dolore. «Spettro, da me!»
«Zitto!» Ebben corse ad afferrarlo, a scuoterlo. «Vuoi tirarci addosso i bruti? Ma che ti prende, ragazzo?»
«Un sogno» disse Jon flebilmente. «Ero Spettro. Ero sulla cima della montagna e guardavo in basso, verso un fiume gelato. Poi qualcosa mi ha attaccato. Un uccello… un’aquila, credo…»
Scudiero Dalbridge sorrise: «Ci sono sempre delle donne graziose nei miei sogni. Vorrei sognare più spesso».
Anche Qhorin si avvicinò a Jon: «Un fiume gelato, dici?».
«Il Fiumelatte nasce da un grande lago ai piedi di un ghiacciaio» aggiunse Stonesnake.
«C’era un albero con la faccia di mio fratello» riprese Jon. «E i bruti… erano migliaia, più di quanti avrei mai creduto ne potessero esistere. E c’erano giganti che cavalcavano dei mammut.»
La luce era mutata. Jon valutò di aver dormito quattro, forse cinque ore. La testa gli doleva e il collo, là dove gli artigli avevano scavato, era in fiamme. “Ma questo è stato nel sogno…”
«Dimmi quello che ricordi» insisté Qhorin il Monco. «Dal principio alla fine.»
Jon era confuso: «Ma era soltanto un sogno…».
«Un sogno di lupo» disse il Monco. «Craster ha detto al lord comandante Mormont che i bruti si stanno raccogliendo alle sorgenti del Fiumelatte. Forse è per questo che hai sognato. O forse hai visto quello che ci aspetta, a poche ore di marcia da qui. Raccontami, Jon.»
Continuò a sentirsi uno sciocco nel dire quello che disse a Qhorin e agli altri ranger, ma obbedì all’ordine. Nessuno dei confratelli neri rise di lui. E quando ebbe finito, anche Scudiero Dalbridge aveva smesso di sorridere.
«Metamorfo?» disse Ebben cupamente, guardando Qhorin.
“Parla dell’aquila?” si chiese Jon “o di me?” I metamorfi e i morti viventi appartenevano alle storie della Vecchia Nan, non al modo in cui aveva trascorso tutta la sua vita. Ma qui, in queste strane e tetre terre selvagge fatte di roccia e di ghiaccio, forse non era poi così difficile accettare che potessero esistere.