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«I venti gelidi si stanno levando» disse Qhorin. «Questo, Mormont lo temeva. E anche Benjen Stark lo aveva percepito. Gli uomini morti camminano e gli alberi hanno nuovamente occhi. Perché non dovremmo credere ai mostri e ai giganti?»

«Significa che anche i miei sogni sono veri?» chiese Scudiero Dalbridge. «Che lord Snow se li tenga pure, i suoi mammut. Io mi tengo le mie donne.»

«Servo nella confraternita da quando ero ragazzo, e mi sono avventurato molto lontano» disse Ebben. «Ho visto scheletri di giganti, e ho sentito molte strane storie, ma nulla di più. Se i giganti esistono, voglio vederli con questi occhi.»

«Sta’ attento che loro non vedano te, Ebben» disse Stonesnake.

Spettro non riapparve, così i ranger si rimisero in marcia. Le ombre, ormai, avevano invaso tutto il passo. Il sole stava svanendo rapidamente dietro i due frastagliati picchi gemelli della titanica montagna che i confratelli chiamavano Punta di Forca. “Se il sogno era vero…” al solo pensiero, Jon ebbe paura. E se l’aquila aveva davvero attaccato Spettro, se l’aveva spinto nel baratro? Di colpo, l’aria si fece più fredda. Avevano cessato di salire. In realtà, il terreno aveva cominciato a scendere, anche dolcemente. La pista era disseminata di crepe, massi spaccati, mucchi di rocce frantumate. “Tra poco sarà buio, e ancora nessuna traccia di Spettro.” Jon aveva il cuore il gola, ma non osava rischiare di richiamare il meta-lupo ad alta voce come avrebbe voluto. In ascolto, poteva esserci anche qualcun altro.

«Qhorin» esclamò Scudiero Dalbridge a bassa voce. «Lassù. Guarda.»

L’aquila era appollaiata su una dorsale rocciosa sopra di loro, una forma di un nero compatto contro il cielo sempre più scuro. “Abbiamo visto anche altre aquile” pensò Jon tra sé e sé. “Quello potrebbe non essere affatto il rapace del sogno.”

Ebben sollevò il proprio arco.

«È fuori tiro» lo fermò Scudiero Dalbridge.

«Non mi piace che ci stia osservando.»

«Neanche a me, ma non riusciremo ad abbatterla» lo scudiero si strinse nelle spalle. «Butteresti via una buona freccia e basta.»

Qhorin rimase immobile sulla sua sella, studiando l’aquila per un lungo momento. «Andiamo avanti» decise alla fine. I ranger ripresero nuovamente a scendere.

“Spettro…” Jon dovette fare un sforzo per non mettersi a urlare. “Dove sei?”

Fece per seguire Qhorin e gli altri quando notò una chiazza bianca tra due massi. “Nient’altro che un cumulo di neve vecchia…” Il cumulo si mosse. In un lampo, Jon saltò giù da cavallo. Corse a inginocchiarsi vicino alla forma bianca. Spettro sollevò il muso a guardarlo, con il dorso rosso e scintillante. Il meta-lupo albino non emise alcun suono quando Jon si tolse un guanto e lo toccò. Gli artigli dell’aquila avevano scavato sentieri sanguinosi nel pelo bianco e nella carne di Spettro. Il predatore alato però non era riuscito a spezzargli il collo.

Qhorin fu in piedi alle spalle di Jon: «Quanto è grave?».

Quasi a rispondergli, Spettro arrancò e si mise in piedi.

«È un lupo forte» disse il Monco. «Ebben: dell’acqua. Stonesnake: il tuo otre di vino. Jon: tienilo fermo.»

Insieme, lavarono via il sangue che incrostava il pelo del meta-lupo. Spettro si divincolò ed espose minacciosamente le zanne quando Qhorin versò del vino sui solchi arrossati scavati dall’aquila. Jon avvolse le braccia intorno a lui e gli bisbigliò all’orecchio, riuscendo a calmarlo. Infine, strapparono una striscia di lana dal mantello di Jon e la usarono per fasciare le ferite. Ormai era calata la notte. Solamente una manciata di stelle remote permetteva di distinguere il nero del cielo dal nero della roccia.

«Andiamo avanti ancora?» chiese Stonesnake.

«No» rispose Qhorin montando sul suo destriero. «Torniamo indietro.»

«Indietro?» Jon rimase sorpreso.

«Le aquile hanno occhi più acuti degli uomini. Siamo stati avvistati.» Il Monco si avvolse una lunga sciarpa nera attorno al volto. «Ci ritiriamo.»

Gli altri ranger si scambiarono delle occhiate, ma nessuno di loro si mise a discutere. A uno a uno, montarono in sella e girarono i cavalli verso casa.

«Spettro» chiamò Jon. «Vieni.»

Il meta-lupo lo seguì, un’ombra pallida in movimento nelle tenebre.

Cavalcarono tutta la notte seguendo nuovamente i meandri del passo, evitando le insidie del terreno fratturato. Il vento si fece più forte. In certi punti, l’oscurità era talmente fitta da costringerli a smontare e proseguire a piedi, tirandosi dietro i cavalli. Ebben arrivò a suggerire di accendere qualche torcia. «Niente fuoco» sentenziò Qhorin, il che pose fine a quella conversazione.

Raggiunsero l’arco di pietra nel punto più alto dello Skirling e ripresero a discendere dalla parte opposta. Chissà dove, nel buio, una pantera-ombra ringhiò di furore, e il ruggito rimbalzò sui contrafforti aspri, tramutandosi in un coro di predatori fantasma. Jon credette anche di vedere un paio di occhi brillare su un cornicione sopra di loro, grandi come le lune della notte del raccolto.

Nell’ora tenebrosa che precede l’alba, si fermarono ad abbeverare i cavalli, dando loro qualche manciata di avena e di biada.

«Non siamo lontani dal punto in cui i bruti, sono morti» disse Qhorin. «Da qui, un uomo è in grado di fermarne cento. Se è l’uomo adatto.»

Il suo sguardo si spostò su Scudiero Dalbridge.

Il ranger chinò il capo: «Lasciatemi quante più frecce potete, fratelli». Passò la mano sul suo arco lungo. «E date una mela al mio cavallo quando rientrate. Se l’è guadagnata, povera bestia.»

“Rimane qui a morire” si rese conto Jon.

Qhorin serrò una mano guantata sull’avambraccio di Scudiero Dalbridge: «Se quell’aquila torna a guardare giù…».

«… le spunteranno delle nuove penne.»

Scudiero Dalbridge cominciò a salire su per l’angusto sentiero che portava alla sommità. Fu l’ultima volta che Jon Snow lo vide.

Un’alba gelida, in un cielo privo di nubi. Jon individuò un punto nero muoversi nell’immensità color blu profondo. Anche Ebben lo vide, imprecò.

Qhorin impose il silenzio: «Ascoltate».

Jon trattenne il fiato. E udì. Molto lontano dietro di loro, il richiamo di un corno da caccia echeggiò sulla cordigliera.

«Eccoli che arrivano» disse Qhorin il Monco.

TYRION

Podrick Payne procedette a vestirlo per la prova che lo aspettava, aiutandolo a indossare una tunica di velluto nel colore porpora dei Lannister. Gli portò anche la catena del suo imperio. Tyrion, però, preferì lasciarla sul tavolino accanto al letto. A Cersei non piaceva le venisse rammentato che era il Primo Cavaliere del re, e il Folletto non aveva alcuna intenzione di esacerbare ulteriormente i loro rapporti.

Varys lo raggiunse mentre stava attraversando il cortile. «Mio lord» esordì l’eunuco, un po’ a corto di fiato. «È meglio che tu legga questo immediatamente.» C’era una pergamena in una delle sue mani candide e delicate. «Un rapporto dal Nord.»

«Buone notizie» chiese Tyrion «o cattive?»

«Questo non spetta a me giudicarlo.»

Tyrion dispiegò il documento. Fu costretto a stringere le palpebre per riuscire a leggere il testo alla luce sanguigna delle torce che illuminavano il cortile della Fortezza Rossa.

«Dei misericordiosi…» disse in un soffio. «Tutti e due?»

«Temo di sì, mio lord. È così triste. Così terribilmente triste. Così giovani, così innocenti…»

Tyrion ricordò il modo in cui i meta-lupi avevano ululato quando il giovane Stark era caduto dalla torre. “E ora? Staranno ululando di nuovo?” «Ne hai fatto parola con qualcuno?»