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«Lo farei, ma mio zio il Folletto dice che mio zio Stannis non riuscirà mai ad attraversare il fiume. Comanderò le Tre Puttane, però, e mi occuperò personalmente dei traditori.»

La prospettiva fece sorridere Joffrey. Le sue labbra carnose gli davano sempre un’aria leziosa. Un tempo, a Sansa piaceva. Adesso ne provava soltanto ribrezzo.

«Dicono che mio fratello Robb va sempre dove il combattimento è più duro» disse lei temerariamente. «Anche se è più vecchio di sua Maestà, certo. Un uomo fatto, ormai.»

Joffrey corrugò la fronte: «Mi occuperò di lui una volta che avrò sbaragliato quel traditore di mio zio Stannis. Sventrerò Robb con la Divoratrice di cuori, vedrai».

Fece voltare il cavallo e diede di speroni, dirigendosi verso il portale. Ser Meryn e ser Osmund si affiancarono a lui, l’uno a destra l’altro a sinistra, e le cappe dorate s’incolonnarono per quattro sulla loro scia. Il Folletto e ser Mandon andarono di retroguardia. Le guardie del castello diedero loro l’incoraggiamento d’addio con grida e applausi. Quando l’ultimo uomo d’arme fu andato, un’improvvisa immobilità calò sul cortile della Fortezza Rossa.

Era la quiete prima della tempesta.

In quella quiete, le arrivò il canto. Sansa si girò e si diresse verso il tempio. Due dei ragazzi di stalla la seguirono, e anche una delle guardie che aveva completato il turno. Altri li imitarono.

Sansa non aveva mai visto il tempio tanto affollato, né tanto illuminato. Grandi lame di luce solare nei colori dell’arcobaleno penetravano in obliquo dalle vetrate delle alte finestre. Dovunque brillavano candele, le loro fiammelle simili a stelle remote. Gli altari della Madre e del Guerriero erano avvolti dalla luce, ma anche il Fabbro, la Vecchia, la Vergine e il Padre avevano i loro adoratori. Alcune fiammelle ardevano perfino sotto il volto in parte umano dello Sconosciuto… E in fondo chi era Stannis Baratheon se non uno Sconosciuto, venuto a giudicare tutti loro?

Sansa visitò ciascuno dei Sette Dei, accendendo una candela a ogni altare. Alla fine, trovò un posto a sedere su una panca, tra una rugosa lavandaia e un ragazzino della stessa età di Rickon, che indossava la raffinata tunica di lino del figlio di qualche cavaliere. La mano dell’anziana donna era ossuta, indurita dai calli, quella del bimbo piccola e delicata, comunque era piacevole avere qualcosa da stringere. L’aria era calda, pesante, impregnata dell’odore dell’incenso e del sudore, piena dei riflessi dei cristalli e dello scintillio delle candele. Un’atmosfera che a Sansa faceva venire le vertigini.

Conosceva l’inno sacro, era stata la lady sua madre a insegnarglielo, molto tempo prima, a Grande Inverno. La sua voce si unì alle altre voci.

Dolce Madre, fonte di pietà,

risparmia i nostri figli dalla guerra, noi ti preghiamo,

ferma le spade e ferma le frecce,

lascia che abbiano giorni migliori.

Dolce Madre, forza delle donne,

aiuta le nostre figlie in questa tribolazione,

calma il furore e lenisci la furia,

insegna a tutte noi una via più gentile.

All’estremo opposto della città, erano andari a migliaia ad ammassarsi nel Grande Tempio di Baelor, sulla cima della collina di Visenya. Anche loro cantavano, le loro voci che si disperdevano su Approdo del Re, oltre il fiume, fino al più alto dei deli. “Gli dei devono ascoltarci, è certo.” Di questo, Sansa era convinta.

Conosceva la maggior parte degli inni. Quelli che invece non ricordava, li seguì come meglio poté. Cantò insieme a vecchi servi avvizziti e giovani mogli ansiose, servette e soldati, cuochi e falconieri, cavalieri e furfanti, scudieri e sguatteri e balie. Cantò con chi era dentro il castello e con chi era fuori, cantò con tutta la città. Chiese misericordia per i vivi e per i morti, per Bran e Rickon e Robb, per sua sorella Arya e per il loro fratello bastardo Jon Snow, così lontano sulla Barriera. Cantò per sua madre e suo padre, per suo nonno lord Hoster e suo zio Edmure Tully, per la sua amica Jeyne Poole, per il vecchio ubriacone re Robert, per septa Mordane e ser Dontos e Jory Cassel e maestro Luwin. Cantò per tutti i valorosi soldati e cavalieri che quel giorno sarebbero morti, per i figli e le mogli che li avrebbero pianti. E verso la fine, cantò addirittura per Tyrion il Folletto e per Sandor Clegane il Mastino. “Non è un vero cavaliere ma mi ha salvato lo stesso” disse alla Madre. “Salvalo, se puoi, e placa la furia dentro di lui.”

Ma quando il septon salì sul pulpito, quando invocò gli dei perché proteggessero il loro vero e nobile re, Sansa balzò in piedi. I corridoi del tempio erano pieni di gente. Per andarsene, fu costretta a farsi largo a spallate. Dietro di lei, il septon stava chiedendo al Fabbro di dare forza alla spada e allo scudo di Joffrey, al Guerriero di infondergli coraggio, al Padre di difenderlo nel momento del bisogno. “Che la sua spada si spezzi e il suo scudo si schianti” quel pensiero folgorò la mente di Sansa mentre continuava a lottare per raggiungere la porta. “Che il suo coraggio svanisca e che tutti gli voltino le spalle.”

Tranne poche guardie di pattuglia sui camminamenti delle mura, il castello appariva vuoto. Sansa si fermò, rimanendo in ascolto. Da lontano, le arrivarono i rumori della battaglia. I canti sacri riuscivano quasi a sommergerli, ma quei rumori erano là, bastava avere orecchie per udirli: il profondo lamento dei corni da guerra, gli scricchiolii e gli schianti delle catapulte che lanciavano pietre, i tonfi nell’acqua e lo spezzarsi del legno, il crepitio dei fuochi accesi sotto le caldaie, il ringhio degli scorpioni che proiettavano dardi lunghi un metro con punte d’acciaio. E sotto tutto questo… le urla degli uomini che morivano.

Era un canto diverso, quello, un canto terribile. Sansa sollevò il cappuccio del mantello per coprirsi le orecchie e corse verso il Fortino di Maegor, la fortezza dentro la fortezza nella quale la regina aveva promesso che tutti, loro sarebbero stati al sicuro. All’imboccatura del ponte levatoio, Sansa incontrò lady Tanda e le sue due figlie. Falyse era arrivata il giorno prima dal Castello di Stokeworth insieme a un piccolo drappello di soldati. Stava cercando di spingere sua sorella sul ponte. Lollys, in lacrime, si ostinava ad aggrapparsi alla sua cameriera: «Non voglio, non voglio, non voglio».

«La battaglia è cominciata» disse lady Tanda con la sua voce querula.

«Non voglio, non voglio.»

Non c’era modo di evitarle. Sansa le apostrofò con cortesia: «Come posso esservi d’aiuto?».

«Non credo tu possa, mia signora» lady Tanda arrossì di vergogna. «Ma ti ringraziamo caldamente. Devi perdonare mia figlia, non è stata bene.»

«Non voglio.» Lollys continuò a tenersi alla cameriera, una ragazza snella e graziosa, con i capelli scuri tagliati corti. A giudicare dalla sua espressione, non avrebbe chiesto di meglio che gettare la sua padrona nel fossato asciutto, a infilzarsi su uno di quei maligni rostri di ferro.

«Vi prego, vi prego, non voglio.»

«Saremo ben protette all’interno» le disse Sansa gentilmente. «E ci saranno anche cibo, bevande e canzoni.»

Lollys la fissò a bocca aperta. I suoi slavati occhi castani sembravano perennemente umidi di lacrime. «Non voglio.»

«Devi» disse sua sorella Falyse con durezza. «E che sia finita qui. Shae, aiutami.»

Ciascuna di loro prese Lollys per un gomito. Insieme, un po’ la spinsero un po’ la trasportarono attraverso il ponte levatoio.

«È stata malata» ripeté lady Tanda.

“Se proprio un bambino in grembo vogliamo chiamarlo malattia” pensò Sansa. Ormai era una chiacchiera diffusa che Lollys fosse incinta.